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Questo stesso Ulisse, avventuroso e umano nel più alto dei sensi, era presente anche in un altro
testo, meno conosciuto, di un poeta famoso: Giovanni Pascoli, che nei primissimi anni del
Novecento (1904-1905) ha immaginato una storia diversa da quella di Dante per "L'ultimo viaggio"
di Ulisse. In questo poemetto, formato da ventiquattro brevi canti in endecasillabi, Pascoli racconta
che Odisseo (Ulisse), da vecchio, annoiato della tranquillità di Itaca, decide di riprendere il mare per
rivedere i luoghi favolosi del suo primo viaggio. Ma scopre che la magia non c'è più, la realtà è
deludente, alle sue domande non viene data risposta. Il passato non può essere vissuto una seconda
volta. Una visione molto più originale - e molto più moderna - di quella descritta, negli stessi anni,
da Gabriele D'Annunzio riprendendo il mito di Ulisse nella Laus vitae, un lungo poema dove si
racconta di un viaggio per mare compiuto dal poeta per visitare i luoghi classici del mondo greco e
poi Roma dove contemplerà gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina. Nel IV canto
D'Annunzio immagina di incontrare in mare Ulisse, solitario, che per un attimo gli rivolge uno
sguardo, guarda solo lui, e con questo gli trasmette una specie di consacrazione, da eroe a eroe, da
superuomo a superuomo. L'Ulisse di Pascoli invece non ha niente di superomistico, non è affatto
sicuro di sé. È un Ulisse che, come l'uomo normale del Novecento, non sa più chi è. Basta vedere
come si rivolge adesso alle Sirene, quelle Sirene che nel suo primo viaggio aveva affrontato
astutamente, freddamente, facendosi legare all'albero della nave per poter ascoltare il loro canto
senza farsene travolgere:
Son io! Son io, che torno per sapere!
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
[...]
Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero! (L'ultimo viaggio, da Poemi conviviali, canto 23)
Ma le Sirene, "immobilmente / stese sul lido, simili a due scogli", non cantano più, non parlano, non
gli dicono niente. E "la corrente rapida e soave" trascina la nave sempre più avanti, fino a che è
troppo tardi: le mitiche Sirene rivelano la loro realtà, non sono "simili a due scogli", lo sono
proprio, sono due banalissimi pezzi di roccia su cui le navi urtano, condannate al naufragio: "E tra i
due scogli si spezzò la nave".
E con questo entreremmo subito in una dimensione realistica, nel mare come concretezza, il
Mediterraneo della dura fatica dei pescatori, dei rischi calcolatamente affrontati dai mercanti che
per secoli, anzi per millenni, hanno percorso le rotte commerciali; ci sono molte descrizioni di
naufragi nella letteratura italiana. Ma vorrei rimanere ancora un poco in compagnia delle Sirene
antiche.
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