Perché l’Unione Europea, inclusa l’Italia, dovrebbe collaborare di più con la Cina? Risponde Andrea Fais

2024-04-25 22:56:17

La performance dell'economia cinese non solo contribuisce alla crescita mondiale per circa il 30% del totale, ma fornisce anche un buon impulso alle imprese europee nel mercato cinese. Secondo Andrea Fais, direttore responsabile di “Scenari Internazionali - Rivista di Affari Globali”, le visite dei leader europei in Cina sottolineano l'importanza di mantenere relazioni aperte e collaborative con il gigante asiatico. Inoltre, evidenzia che, di fronte al tema molto dibattuto sulle auto elettriche cinesi, l'Europa dovrebbe trovare un equilibrio tra la concorrenza e la collaborazione affinché possa proseguire una transizione ecologica insieme alla seconda economia del mondo. Una panoramica sul presente e sul futuro delle relazioni sino-europee secondo Andrea Fais.


Nel primo trimestre del 2024, l'economia cinese ha registrato una crescita del 5,3% su base annua, mentre, di recente, istituzioni finanziarie straniere, tra cui Deutsche Bank e Goldman Sachs, hanno alzato le prospettive dell'economia cinese. Come valuta le aspettative di crescita economica cinese con un obiettivo di circa il 5% per quest'anno? Nell'attuale contesto della politica internazionale e dell'economia globale, qual è il significato della tendenza di crescita economica cinese per la ripresa sostenibile dell'economia mondiale?

Come avevamo previsto lo scorso anno, l'economia cinese si è confermata in salute. Alcuni fattori critici, come l'instabilità nel settore immobiliare o l'aumento della disoccupazione giovanile nella prima parte del 2023, non hanno compromesso il quadro generale: PIL in crescita (+5,2% nel 2023, +5,3% nel primo trimestre), investimenti in capitale fisso in espansione (+3% nel 2023), bassa inflazione (+0,2% nel 2023), bassa disoccupazione (5,2% a marzo di quest'anno), reddito disponibile pro-capite in aumento (+6,3% nel 2023) e consumi sempre più trainanti con un contributo alla crescita pari al 73,7% del totale nel primo trimestre del 2024. 

Meno di due settimane fa, come Lei ha ricordato, Goldman Sachs ha rivisto al rialzo la previsione di crescita della Cina per quest'anno dal 4,8%, ipotizzato nel mese di novembre, al 5%. A conferma delle prospettive più rosee, circa una settimana dopo, è arrivato il dato reale del primo trimestre: +5,3%, contro il +4,6% atteso da alcuni economisti interpellati da Reuters. Altro aspetto molto importante è che nei primi tre mesi dell'anno gli investimenti in capitale fisso sono saliti del 4,5% su base annua, cioè l'1,5% in più rispetto all'anno precedente, e gli investimenti nei settori hi-tech sono aumentati dell'11,4%: in particolare, tra tutti i comparti ad alto contenuto tecnologico, si segnalano per crescita l'industria aerospaziale (+42,7%) e i servizi e-commerce (+24,6%). Molto bene anche il commercio estero, con un valore totale in crescita del 5% tra gennaio e marzo su base annua: l'import-export è trainato dalle relazioni con i Paesi partner dell'Iniziativa Belt and Road (BRI), che racchiudono oltre il 47% del valore totale, mentre a guidare le esportazioni cinesi sono i prodotti meccanici e elettronici, pari quasi al 60% del valore totale. 

Indubbiamente si tratta di una fotografia globalmente rassicurante anche per l'economia mondiale che, al di là delle narrazioni ideologiche, è ancora profondamente intrecciata con il mercato cinese. Non va dimenticato che l'economia del Dragone contribuisce stabilmente alla crescita mondiale per circa il 30% del totale.


Nell'ultimo mese, il premier olandese Mark Rutte, il ministro degli Esteri francese Stephane Sejourne e il cancelliere tedesco Olaf Scholz hanno visitato rispettivamente la Cina. Durante queste visite, hanno sottolineato l'opposizione e l'impossibilità di un decoupling dalla Cina, ottenendo significativi progressi in diversi settori, tra cui il commercio bilaterale, lo sviluppo sostenibile e la lotta al cambiamento climatico. Quali segnali possiamo interpretare da queste iniziative?

I governi occidentali sanno molto bene che quello cinese - per dimensioni, competitività, competenze, infrastrutture e tecnologie - è un mercato praticamente insostituibile. Nessun altro Paese al mondo presenta, tutte insieme, simili caratteristiche: né tra le economie avanzate né tra quelle emergenti. Lo stesso Biden se ne sta probabilmente rendendo conto, se mai avesse seriamente pensato di poter ricostruire un'intera rete di catene industriali e logistiche centrate sull'India. 

Non solo Rutte, Séjourné e Scholz ma anche manager di primo piano di importanti società statunitensi - tra cui Apple, Qualcomm, FedEx, Blackstone Group, Bridgewater Associates ed altre - hanno raggiunto in diverse occasioni la Cina nelle ultime settimane per riprogrammare le rispettive strategie di investimento nel Paese, dopo la "fuga" paventata lo scorso anno. Le pressioni nella direzione del cosiddetto decoupling provengono essenzialmente da alcuni circoli politicizzati, spesso sovvenzionati da partiti o apparati governativi e talvolta legati all'industria militare, che trae logicamente vantaggio dall'inasprimento delle relazioni tra Washington e Pechino, puntando ad incrementare i contratti di fornitura a Taiwan. Chi fa impresa in tutti gli altri settori, dovendo tutelare profitti e posti di lavoro in condizioni di pace e stabilità, non può certo permettersi di giocare alla guerra fredda nel XXI secolo. 

Laddove possibile e davvero conveniente, l'Unione Europea può senz'altro rimodulare o accorciare le catene di approvvigionamento in alcuni comparti specifici per ridurre i rischi legati ai colli di bottiglia o alle crisi internazionali, come annunciato nel 2022 con l'approvazione del Critical Raw Materials Act. Tuttavia, la diversificazione ponderata non può essere l'anticamera di un insensato e pericoloso piano di sganciamento dal mercato cinese. Già da due anni i cittadini europei stanno sperimentando a loro spese un'economia di guerra, seppur in forma indiretta ed edulcorata, e gli effetti a catena si sono visti: costi energetici schizzati alle stelle, inflazione elevata e tassi alti. Si spera, dunque, che a Bruxelles prevalgano il buon senso e la saggezza.

 

Nell'ottobre scorso, l'Unione Europea ha avviato delle indagini anti-sussidi sulle auto elettriche cinesi, creando un trattamento non equo per le auto elettriche cinesi nel mercato europeo. Durante una recente visita di lavoro in Cina, il cancelliere Scholz ha dichiarato che il mercato tedesco accoglie a braccia aperte le auto cinesi e che il mercato europeo dovrebbe favorire una concorrenza aperta e equa. Se dovesse scoppiare una guerra commerciale tra Cina ed Europa sui veicoli elettrici, l'industria automobilistica tedesca subirebbe un grave impatto, che si ripercuoterebbero anche sulla catena automobilistica italiana. È importante comprendere che i veicoli a nuova energia non riguardano solo la collaborazione industriale ed economica tra Cina ed Europa, ma rappresentano anche un elemento cruciale nella transizione energetica e nello sviluppo sostenibile sia per la Cina che per l'Europa. Come valuta le divergenze tra Cina e Unione Europea nel contesto della cooperazione sulle auto elettriche? 

Sulle auto elettriche partirei dal principio. In Europa è in corso un aspro dibattito sull'opportunità di introdurre l'obbligo di immatricolare soltanto veicoli di nuova energia a partire dal 2035, con una scadenza intermedia già fissata per il 2030, anno entro cui le aziende del settore auto dovrebbero ridurre del 55% le emissioni di CO2 rispetto ai livelli del 2021.

A differenza di quanto sostengono molti partiti europei di destra, non credo assolutamente che questa mossa sia stata pensata per favorire i produttori cinesi ma piuttosto qualcun altro all'interno dell'Europa stessa. E infatti la Commissione UE sta vagliando concretamente l'ipotesi di introdurre dazi significativi sulle auto elettriche cinesi in base all'indagine anti-sovvenzioni da Lei citata, che si concluderà a novembre. La realtà è che attualmente l'industria cinese di settore è molto più avanti di quella europea in termini produttivi e tecnologici: non solo perché possiede in casa buona parte delle materie prime necessarie ma anche e soprattutto perché la transizione verso i veicoli a nuova energia è stata pensata molto tempo prima da Pechino per ridurre l'inquinamento atmosferico nelle aree urbane del Paese, per lungo tempo estremamente elevato e da un decennio in sostanziale diminuzione. 

 

Considerando la lotta contro il cambiamento climatico e l'importanza delle nuove energie in tutti i settori, come dovrebbero Cina e Italia, anzi Cina ed Europa, trattare le relazioni tra concorrenza e cooperazione?

Come già accennato, in Europa si parla fin troppo di green ma senza ancora ben comprenderne la portata e il percorso. La transizione ecologica ha dei costi particolarmente elevati e richiede investimenti, tecnologie e competenze adeguate. Non è un caso se i primi dieci Paesi al mondo per mole di investimenti nella transizione energetica sono tra i più forti economicamente. Secondo i dati di Statista riferiti al 2023, in testa c'è la Cina con 675,9 miliardi di dollari, seguono a notevole distanza gli Stati Uniti ($303,1 mld). Nettamente più lontani per volume di investimenti si posizionano Germania, Regno Unito, Francia, Brasile, Spagna, Giappone, India e infine l'Italia, che sta facendo molto in questa direzione ma che è appena decima con 29,7 miliardi di dollari. E il resto dell'Asia e dell'America Latina? L'Europa Orientale? L'Africa? Pensare di poter convertire intere filiere produttive in tutto il mondo in appena dieci o vent'anni è del tutto irrealistico. 

L'Agenda 2030 è un indicatore generale di alcune tendenze oggettivamente preoccupanti per l'umanità, cui rispondere attraverso un insieme di interventi sulle cause e sugli effetti. Quindi ben vengano la diversificazione del mix energetico, lo sviluppo della mobilità sostenibile, l'efficientamento energetico di abitazioni e siti produttivi, la promozione di una filiera agroalimentare più sana e sicura, che per altro in Italia già abbiamo, ma attenzione a non spingersi al punto tale da danneggiare irreparabilmente il ceto medio e le imprese sull'onda emotiva di suggestioni catastrofiche o apocalittiche.

Detto questo, il potenziale di cooperazione tra Cina ed Europa nei settori green è elevato. Germania, Francia, Italia e Spagna hanno le carte in regola per competere sul mercato cinese, malgrado la forte concorrenza delle aziende locali. Lo stesso vale per gli attori cinesi nel Vecchio Continente. Inoltre, grandi opportunità di cooperazione sino-europee in joint-venture esistono nei Paesi terzi, soprattutto in Africa, dove la transizione ecologica è praticamente allo stadio embrionale. 

Chiaro che, più in generale, sarà fondamentale riavviare i negoziati interrotti tre anni fa per portare a conclusione l'Accordo Globale sugli Investimenti (CAI) tra UE e Cina, finalizzato nel dicembre 2020 dopo sette anni di negoziati grazie soprattutto all'attivismo dell'ex cancelliera Angela Merkel, ma bloccato e messo in soffitta pochi mesi dopo dalla Commissione Von der Leyen. Sarebbe un quadro normativo molto importante per l'aziende europee attive in Cina in materia di accesso al mercato, trasparenza e prevedibilità, includendo anche il tema della sostenibilità a vari livelli. Speriamo si concluda presto questo quinquennio disastroso per l'UE, tra pandemia, guerre e crisi sociali, e si possa tornare alla diplomazia e al buon senso che hanno caratterizzato le principali cancellerie europee nel secondo dopoguerra sino a non molti anni fa.

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