Dopo due anni di guerra estenuante, con una controffensiva tanto annunciata quanto fallita, una divisione profonda nel fronte ucraino ed un palpabile quando emblematico calo di interesse nel sistema politico e mediatico dell’Occidente, l’Europa si mostra stanca della guerra.
È quanto emerge da un rapporto dello European Council on Foreign Relations, basato su sondaggi YuoGov e Datapraxis condotti in 12 Stati membri dell’Unione. Particolarmente significativi i dati relativi al nostro paese, che si rileva tra i più scettici dell’azione intrapresa dalle istituzioni europee e degli esiti della guerra stessa. Oltre il 40% degli italiani giudica negativamente il ruolo avuto dall’Europa nel conflitto (solo il 21% lo reputa positivo) ma soprattutto la maggioranza assoluta (il 52%) ritiene che “l’Europa dovrebbe spingere l’Ucraina a negoziare un accordo con la Russia” (contro il 41% della media europea) ed il 43% ritiene che “l’esito finale della guerra” sarà che “Ucraina e Russia troveranno un accordo di compromesso”.
Tutt’altra musica rispetto alla martellante campagna mediatica che ha accompagnato la campagna di guerra in questi due anni, caratterizzata da una pericolosissima criminalizzazione del dissenso verso coloro che si sono permessi di portare nel dibattito pubblico un punto di vista alternativo alla narrazione dominante dei media. La politica europea, caratterizzata spesso da profonde divisioni, ha mostrato in questo caso una diamantina determinazione. «La vittoria dell’Ucraina contro la Russia è la migliore garanzia di sicurezza per l’Europa», tuonava solo pochi mesi fa l’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri Josep Borrell. Ancora l’altro giorno, il presidente del Consiglio europeo Michel, chiariva che «esiste un solo piano A, la vittoria dell’Ucraina». Che, tradotto, significa: maggiori armi, maggiori scontri militari e guerra economica, sulla pelle delia popolazione civile che soffre.
Per fortuna, accanto alle mai sopite posizioni “pacifiste” di chi si opponeva all’escalation militare e chiedeva una soluzione diplomatica al conflitto, ci sono state – per quanto la cosa possa sembrare paradossale, ma non lo è - importanti prese di posizioni dal mondo militare.
La più emblematica è sicuramente quella di Mark Milley, capo di stato maggiore Usa, che ha più volte predicato prudenza, cercando di smussare le prese di posizione dei politici occidentali che, come abbiamo visto, in questi due anni hanno soffiato sul fuoco. Dalle colonne del Financial Times, pochi giorni fa ha affermato che il conflitto può solo concludersi a un tavolo negoziale. Ma non è l’unica voce in tal senso. Voci simili si sono levate anche in Germania, dove il general maggiore in congedo Harald Kujat, già presidente del Consiglio NATO-Russia, ha messo in guardia sulle pericolose conseguenze che il conflitto ucraino può avere sugli interessi vitali della Germania ed ha puntato il dito contro i britannici per aver sabotato i negoziati di Istanbul fra russi e ucraini, che stavano portando a un possibile cessate il fuoco già a marzo 2022. Circostanza, questa, confermata su Foreign Affairs dall’ex membro del Consiglio per la sicurezza nazionale americano Fiona Hill e da David Arakhamia consigliere del presidente ucraino.
Anche in Italia non sono mancati importanti segnali in tal senso. Già un anno fa, il capo di Stato maggiore della Difesa italiana, Giuseppe Cavo Dragone spiegava: «Sono sempre dell’idea che una soluzione militare non si possa trovare» e, in una intervista alla Stampa, si domandava: «Ci sono stati elementi di instabilità che non abbiamo colto? C’è stata qualche carenza nella comunicazione? Avremmo potuto avere una maggiore possibilità nel proporre dialogo e inclusione?». Se solo si fossero tenute in debita considerazione queste riflessioni, forse, si sarebbe potuta risparmiare alla popolazione civile ed all’Europa interna un anno di guerra.
Ma queste posizioni non sono isolate, anzi: se volgiamo lo sguardo al mondo accogliendo la ricchezza del suo pluralismo e liberandoci da una visione eurocentrica ed auro-atlantica, ci renderemmo conto che posizioni di assoluta ragionevolezza che puntano a ridurre il conflitto e mettere fine all’attuale situazione di disordine mondiale incontrano il favore della stragrande maggioranza della popolazione e dei governi mondiali. A partire dagli stati post coloniali che sin dall’inizio hanno respinto ogni tentativo dell’Occidente di trasformare una guerra europea in un conflitto mondiale. Soprattutto hanno rispedito al mittente il concetto di Rule-Based International Order proveniente dagli Usa e dai Paesi Nato che hanno ripetutamente in questi ultimi 30 anni violato le regole della legalità internazionale (che è cosa distinta dal RBO) scatenando guerre in tutto il mondo: dalla Somalia alla ex Jugoslavia, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, fino alla “proxy war” ucraina.
Tutto questo dovrebbe aprire una riflessione profonda in Occidente, ma soprattutto in Europa, continente che pagherà più di ogni altro il prezzo di questo lacerante conflitto che ha reso attuale il sogno di Bush del 2002 della contrapposizione tra “nuova” e “vecchia Europa”.
Dal febbraio 2022, l’UE ha imposto 13 pacchetti di sanzioni alla Federazione russa che, con 16.587 misure è il paese più sanzionato al mondo. Secondo il vicedirettore generale per l’Europa orientale, Luc Pierre Devigne, l’economia russa sarebbe crollata in poco tempo: «Le nostre sanzioni funzionano, - affermava - la Russia affronta una recessione dagli anni Novanta e ora ci aspettiamo un crollo del Pil nazionale dell’11 per cento, ancora maggiore rispetto a quello della caduta dell’Urss». Non è andata esattamente così: secondo l’ultimo World Economic Outlook del FMI, dopo aver chiuso il 2023 con un +3%, il PIL russo quest’anno dovrebbe crescere di un ulteriore 2,6% a fronte di un modesto +0,9% dell’Eurozona. La disoccupazione russa è ai minimi storici e la guerra sta trasformando la sua economia, riducendo le inefficienze e gli squilibri che la caratterizzavano.
Chi invece sta pagando uno scotto drammatico, assieme alla popolazione civile stravolta dalla guerra, è l’Europa, divisa profondamente dal blocco eurasiatico al quale appartiene e con un’economia in crisi profonda. Il modello produttivo basato su fonti energetiche russe a basso costo e spese militari contenute è completamente saltato: crescono prezzi ed inflazione e cala la capacità produttiva. L’Economia tedesca è entrata in recessione ed in tutto il continente europeo la perdita di qualità della vita è palpabile: in Italia più della metà delle Regioni non garantiscono più le cure essenziali. La finanziarizzazione dell’economia portata avanti secondo il modello americano della globalizzazione neoliberista, ha reso il tessuto sociale e produttivo più fragile e la progressiva erosione dei diritti democratici hanno portato alla subalternità del potere politico agli interessi dei capitali privati.
Per questa via, si aprirà in Europa un lungo inverno dei diritti e dello sviluppo, con la distruzione di quanto costruito, faticosamente, dal dopoguerra. Ecco perché la discussione sul futuro della guerra in Ucraina, in questo secondo anniversario, resta centrale. Perché siamo ancora in tempo per scegliere di appoggiare la linea della maggioranza dei paesi del mondo e smetterla con questa insensata nuova guerra fredda. Il nostro futuro, si gioca ora.
L'autore Francesco Maringiò è il presidente dell’Associazione italo-cinese per la promozione della Nuova Via della Seta