Assistiamo ad una pericolosa dinamica di precipitazione verso la guerra che vede nel continente europeo il suo epicentro in un mondo che, a ben guardare, è attraversato da crisi profonde e laceranti conflitti. Proprio qui, dove nel dopoguerra si costruiva il welfare, sembra non ci sia altro futuro che non il warfare, con la spesa per gli armamenti e la difesa che lievita sempre più negli anni. Il prossimo 27 febbraio verrà resa nota la “Strategia industriale per la Difesa Europea”, ma è oramai da anni che il trend si consolida: dal 2014 Paesi europei più il Canada hanno allocato 600 miliardi dei propri bilanci in spese militari e quest’anno la maggioranza dei paesi della Nato impegnerà il 2% del proprio Pil in difesa ed armamenti.
Tutto questo avviene in una fase di crisi economica evidente: stando ai dati forniti dalla Commissione europea, la crescita dell’Ue nel 2023 è stata di appena lo 0,5% e si stima che nell’anno in corso sarà dello 0,9%, a fronte del Pil americano a quota 2,5% e quello cinese al 5,2%. La Germania, a lungo locomotiva d’Europa, è entrata nel 2023 in recessione e registra un crollo vertiginoso della produzione industriale ma, ciononostante, ha vincolato in spese militari 100 miliardi e si propone di dare avvio ad un’economia di guerra, inaugurando il sito produttivo della Rheinmetall per la produzione di munizioni ed armamenti. Come se ciò non bastasse, il ministro delle finanze Lindner si interroga apertamente sulla necessità di dotarsi di un deterrente nucleare. La situazione, quindi, è allarmante.
Questo quadro ha fatto da sfondo all’apertura venerdì della sessantesima edizione della Conferenza per la Sicurezza di Monaco, un evento considerato una sorta di “Davos della sicurezza”, che fino a domenica ha visto la presenza di una cinquantina di capi di stato e tutte le maggiori aziende della difesa riunite nella capitale bavarese.
In Europa, dicevamo, si corre precipitosamente verso lo spettro di una nuova guerra, fortemente sostenuta da un pezzo delle classi dirigenti del blocco euro-atlantico, in antinomia con la maggioranza dell’opinione pubblica continentale. È lo stesso rapporto della Conferenza di Monaco a fornire, per paradosso, alcuni interessanti spunti di riflessione. Nonostante in Europa la Russia venga descritta dai principali mezzi di informazione come la principale minaccia alla nostra sicurezza (è notizia di due giorni fa del pericolo rappresentato da un’arma nucleare spaziale russa), l’opinione pubblica europea non la percepisce più come tale. Addirittura in Italia il “pericolo russo” è al dodicesimo posto.
Ma questo abbrivio delle classi dirigenti euro-atlantiche al militarismo, aumenta anche la distanza tra noi ed il resto del mondo, che guarda all’Europa come un continente che si arma e continua a brandire come una clava questa presunta divisione del mondo secondo diversi modelli di governance, come se davvero questa supposta divisione tra democrazie ed autarchie rappresenti una effettiva tendenza nella nostra era.
Ma il dibattito nel mondo è più articolato di quello che traspare ascoltando alcuni leader europei. Sempre alla conferenza di Monaco è intervenuto sabato il ministro degli esteri cinese Wang Yi e qui non solo i toni, ma proprio i proponimenti, sono risultati subito diversi. Se infatti il giorno prima la vice presidente degli Usa aveva chiarito che «il ruolo di leadership globale dell'America vada a diretto beneficio del popolo americano», il diplomatico di lungo corso cinese ha chiesto maggior peso per i paesi in via di sviluppo affinché facciano sentire di più la propria voce negli affari globali e contribuiscano a creare un’architettura globale equilibrata. E qui tocchiamo con mano un punto nevralgico dell’attuale fase politica mondiale: le nostre classi dirigenti spesso parlano tra di loro e si rapportano col resto del mondo secondo il ben noto schema del giardino e della giungla, mentre la classe dirigente cinese guarda al mondo nella sua totalità proponendo iniziative che portino beneficio diretto al mondo intero (e quindi, per questa via, anche alla Cina).
Il discorso di Wang Yi, infatti, si è imperniato su due parole chiave: stabilità e crescita, esponendo non solo il punto di vista cinese e le iniziative intraprese in questo senso dal suo paese, ma provando a dare delle indicazioni comuni di lavoro. È così che va colto l’invito a dare voce al Sud globale da un lato e “rafforzare, non indebolire” – ha chiarito Wang Yi – il ruolo delle Nazioni Unite, oppure far sì che nasca una istituzione internazionale sulla governace dell’I.A. sotto l’egida dell’Onu.
Quanto alla crescita il ministro cinese ha ricordato come, anche lo scorso anno, il contributo cinese alla crescita mondiale si è assestato al 30% e che la tendenza alla cooperazione internazionale non possa essere arrestata. Per essere più chiari: provare e «mettere fuori gioco la Cina in nome del de-risking darà vita ad uno sbaglio storico. L’economia mondiale – ha detto Wang Yi – è un grosso oceano che non potrà essere ridotto in laghi isolati».
Crescente militarismo, progressivo impoverimento della società e rischi crescenti di guerra sono entrati nella quotidianità delle nostre vite. Non sono l’unica possibile e concreta opzione che ci riserba il futuro. Crescita economica, cooperazione e governance globale possono evitare di farci deragliare verso nuove pericolose avventure belliche. È li, tra pace e guerra, che si gioca il nostro futuro.
L'autore Francesco Maringiò è il presidente dell’Associazione italo-cinese per la promozione della Nuova Via della Seta