Qui da noi facciamo fatica a cogliere appieno il portato dei processi storici che coinvolgono i paesi del così detto “sud globale”. Continuiamo ad interpretarli con le nostre categorie non cogliendo quello che alla maggior parte dei popoli di questi paesi appare ovvio. È un esempio di questo la cooperazione tra Cina ed Africa, destinata a cambiare la magnitudine delle relazioni mondiali.
Si è a scritto molto sul recente vertice dei paesi BRICS tenutosi in Sudafrica e sull’importanza dell’allargamento di questo club a sei nuovi paesi, preludio per successivi nuovi ingressi. Ma questo passaggio del Financial Times coglie, a mio avviso, il senso profondo di quando è avvenuto al vertice di Johannesburg: «il gruppo allargato rappresenta il blocco più influente che il mondo in via di sviluppo abbia mai prodotto. Si ha la sensazione che, dopo decenni di accettazione delle regole dell'Occidente, stia nascendo l'era del "Sud globale"».
Il 15º vertice in Sudafrica, infatti, rende plastica la fine di una lunga era nella quale l’Occidente (ed il suo sistema economico e politico) era considerato un modello di riferimento per i paesi in via di sviluppo. La dichiarazione finale del vertice riflette una strutturata visione del mondo in contrasto con l’approccio unipolare degli Stati Uniti che i paesi emergenti vivono come un’ipocrita eredità del passato coloniale, un ostacolo allo sviluppo della comunità globale ed una minaccia alla pace. Al vertice BRICS, oltre ai 5 paesi membri, erano presenti anche altri 67 stati, di cui 53 paesi africani. Le nazioni in via di sviluppo stanno rafforzando una prospettiva politica condivisa basata sul multipolarismo e sull’obbiettivo della crescita condivisa e questo aumenta la capacità attrattiva di questo gruppo, anche in seguito alla crisi politica e di valori dell’occidente.
In un passaggio del discorso del presidente cinese tenuto al vertice in Johannesburg, troviamo scritto: «la storia dell'umanità non finirà con una particolare civiltà o un particolare sistema». È la fotografia più vivida delle trasformazioni in atto nel mondo, che chiudono il ciclo storico iniziato nel 1989 che ha condotto all’illusione della “fine della storia” e della pretesa che processo di evoluzione sociale, politica ed economica dell’umanità fosse confinato dentro il ristretto recinto del Washington Consensus.
I commenti sulla stampa italiana hanno insistito molto sulla presunta disomogeneità del gruppo dei BRICS su una serie di importanti dossier e temi. Con il dovuto rispetto per queste opinioni, a mio avviso non colgono il punto essenziale di tutta la vicenda, aspetto invece che è perfettamente chiaro alla maggioranza dei paesi del così detto sud globale. Piuttosto che elencare i punti dialettici tra i singoli stati, forse sarebbe utile analizzare una delle tante istantanee del recente vertice di Johannesburg. Tra gli interventi c’era la brasiliana Dilma Russeff, una donna che ha dovuto lottare per tutta la vita per le sue idee e pagare un prezzo pesante per la libertà del suo paese. Quella che un tempo era una giovane donna costretta a subire le torture e le angherie di un regime dittatoriale sostenuto dal Dipartimento di Stato Americano è oggi la presidentessa della New Development Bank, il braccio finanziario creato dai paesi BRICS per sostenere progetti di sviluppo. Una storia che incarna, nella sua semplicità, l’essenza stessa del processo di emancipazione di paesi e popoli del mondo intero e la rappresentazione plastica della democratizzazione delle relazioni internazionali. Una storia che è stata possibile grazie alla progressiva centralità acquisita da alcuni paesi che oggi si coordinano per democratizzare ulteriormente le regole globali. È la storia di successo di quanti si sono dovuti scrollare di dosso il fardello del colonialismo e della subalternità. Un aspetto, questo, del tutto assente nelle analisi dei nostri principali media, ma che per molti paesi e popoli rappresenta un collante molto più forte di qualsiasi divergenza geopolitica. Se non si coglie questo aspetto, ripeto: lo dico con il massimo del rispetto, allora non si comprende nulla del mondo nel quale viviamo.
L'Africa è un continente composto da 54 Paesi, che pesa quasi per il 30% nelle votazioni alle Nazioni Unite (ONU) ed una popolazione di 1,3 miliardi di persone, di cui la maggior parte giovane e produttiva, con una superficie di 30,37 milioni di km² e dotata di notevoli risorse naturali. La collaborazione con la Cina, un Paese di 1,4 miliardi di persone, la seconda economia mondiale, non potrà che produrre effetti sinergici di portata rilevante. Già oggi oltre 3700 imprese cinese sono state impegnate in Africa nello sviluppo di diversi progetti ed hanno investito nel continente 56 mld di dollari. A questo va aggiunto che 21 paesi africani hanno beneficiato dell’azzeramento delle tariffe doganali offerto dal governo cinese. L’interscambio commerciale tra Cina ed Africa è ancora relativamente debole (nei primi 5 mesi dell’anno il volume di import-export ha raggiunto quota 113,5 mld di dollari), quindi i margini di crescita sono enormi.
Il forte rapporto tra Cina ed Africa non nasce certo adesso, ma ha radici profonde. Ed i cinesi non dimenticano mai il contributo decisivo dei paesi africani per l’ingresso nell’Onu del proprio paese. Nel 2015 queste relazioni di lunga durata sono state elevate a Partenariato strategico cooperativo globale con la costituzione del Forum di Cooperazione Africa-Cina (FOCAC). In occasione del vertice di questo Forum tenutosi nel 2018 il governo cinese ha messo sul piatto 60 mld di dollari per lo sviluppo della cooperazione in ambito FOCAC in otto aree di cooperazione in diversi settori: dal commercio alla sicurezza, dalla promozione industriale alla connettività infrastrutturale etc. Nell'ambito della FOCAC, che dal 2000 è la principale piattaforma per il partenariato Cina-Africa, i Paesi africani hanno la possibilità di accedere alle capacità industriali, tecnologiche e produttive e alle risorse finanziarie di cui dispone la Cina. E la Cina può svolgere un ruolo centrale nel potenziamento della connettività, dello sviluppo delle infrastrutture e dell'industrializzazione in Africa.
Siamo ad un punto di svolta importante: se fino ad ora la Cina è stata il drive principale per lo sviluppo infrastrutturale di molti paesi africani, ora il cuore della cooperazione si sposta sulla capacità di sviluppo industriale. E diversamente dal trasferimento tecnologico europeo verso l’Asia, spesso legato alle vecchie tecnologie, quello cinese in Africa coinvolge tecnologie di primo piano. Ne sa qualcosa la startup keniota BasiGo, che è stata la prima a lanciare autobus elettrici nel Paese, utilizzando parti progettate dalla casa automobilistica cinese BYD. E di progetti analoghi se ne contano diversi per ciascun paese africano che ha stretto rapporti con la Cina.
Se nel 2000 il settimanale inglese The Economist aveva dedicato una copertina all’Africa appellandola come “un continente senza speranza”, già nel 2011 ha dovuto correggere il tiro definendola un paese “in crescita”. Speriamo non passi ancora molto tempo affinché alle nostre latitudini diventi chiaro che il potenziale di crescita di questo continente è enorme e che è anche nel nostro interesse favorirlo, per esempio attraverso progetti di cooperazione con la Cina nei paesi terzi. Questa prospettiva è ricca di enormi potenzialità, sta a noi coglierli appieno.
L'autore Francesco Maringiò è il presidente dell’Associazione italo-cinese per la promozione della Nuova Via della Seta