Egemonia Usa, sviluppo ineguale e trasformazione dell'ordine mondiale

2023-08-19 15:20:06

Oltre al sistema di potere militare, imperniato su una capillare presenza all'estero, l'egemonia statunitense si fonda anche su un articolato e complesso sistema di influenza e condizionamento a livello economico-commerciale e finanziario.

Con gli accordi di Bretton Woods del 1944, il dollaro americano cominciò la sua rapida ascesa al trono di principale valuta di riferimento a livello mondiale. Malgrado la fine di quel sistema e dunque del principio (già residuale) di convertibilità del dollaro in oro, decretata da Richard Nixon nel 1971, è comunque rimasta per gli Stati aderenti la necessità di mantenere una riserva in dollari sia per sostenere il valore della valuta nazionale (molti Paesi hanno mantenuto un tasso di cambio fisso a lungo) sia per integrarsi nell’economia mondiale e migliorare così la propria posizione nel commercio internazionale. Questa dipendenza ha generato delle vere e proprie trappole del debito per moltissimi Paesi in ogni continente (anche a seguito di politiche irresponsabili di stampo egemonico, come ad esempio le politiche monetarie della FED, con aumenti improvvisi dei tassi di interesse). Pertanto, la necessità esistenziale di accumulare riserve in dollari obbligava vari Paesi ad accrescere le proprie esportazioni - togliendo spesso risorse preziose per gli investimenti in altri settori nazionali – i cui introiti, tuttavia, venivano periodicamente decurtati dal pagamento del servizio al debito estero. Quest’ultimo era stato contratto da molti Paesi del Sud del mondo a condizioni iniziali sostenibili e nell’ambito di un consenso finanziario internazionale che fino agli anni Settanta sosteneva la cosiddetta “finanza per lo sviluppo” (finalizzata ad avviare processi di industrializzazione nei Paesi ad economia arretrata). Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, l’egemonia-dominio del dollaro nell’economia mondiale è stata usata sempre di più come arma politica (per questo motivo si parla di weaponization) al fine di estendere il cosiddetto consenso di Washington, che oggi è chiaramente in decadenza. 

Oltre all'affidabilità e alla forza dell'economia statunitense, effettiva almeno fino ai primi anni Novanta del secolo scorso, ci sono dunque anche ragioni di carattere storico-politico che hanno progressivamente imposto il biglietto verde quale valuta dominante nel commercio mondiale e nelle transazioni finanziarie.

Questo sistema di potere valutario si è fondato e continua tutt'oggi a fondarsi prevalentemente sull'azione a livello globale di due grandi istituzioni che, non a caso, hanno sede a Washington, ovvero il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e il Gruppo Banca Mondiale (WBG), fondate tutte e due nel 1944. Per quanto riguarda il FMI, il dollaro USA è ancora la principale valuta all'interno del paniere dei Diritti Speciali di Prelievo (SDR), con una quota pari al 43,38% del totale, seguito da euro (29,31%), yuan (12,28%), yen (7,59%) e sterlina (7,44%).

Il WBG è invece suddiviso a sua volta in cinque istituti. Gli Stati Uniti sono ancora oggi il primo azionista nei quattro istituti finanziari che compongono la Banca Mondiale, con poteri di voto superiori a quelli di qualsiasi altro Paese: 15,73% nell'IBRD, 9,66% nell'IDA, 18,16% nell'IFC e 14,81% nel MIGA.

Sebbene a partire dal 2010 FMI e WBG abbiano acconsentito ad una maggiore partecipazione delle principali economie emergenti, in primis la Cina, queste istituzioni internazionali restano ancora egemonizzate dai Paesi del G7, con gli Stati Uniti ovviamente in testa. Ad oggi, il dollaro è utilizzato nel 90% delle transazioni globali in valuta estera, copre il 54% delle riserve mondiali in valuta estera (quota che è andata erodendosi negli ultimi anni in modo sempre più significativo), oltre il 40% dei pagamenti SWIFT e circa il 50% della fatturazione commerciale mondiale.

Dopo un momentaneo picco tra il 2014 e il 2015, le riserve di valuta estera in dollari hanno ripreso a calare con una certa costanza. Se nel 2002 queste raggiungevano all'incirca il 72,5% del totale mondiale, vent'anni più tardi queste sono scese al di sotto del 60% evidenziando il trend verso una de-dollarizzazione globale ancora parziale e non sufficientemente solida ma indubbiamente presente e soprattutto crescente.

Com'era logico, ormai è lo yuan cinese (renminbi) l'unico vero competitor del dollaro. Da quando ha acquisto lo scettro di prima potenza commerciale mondiale, la Cina ha avviato con perseveranza ed ambizione un piano per sostituire progressivamente il dollaro nel suo interscambio di beni e servizi con gli altri Paesi. Ciò sta avvenendo per due motivi fondamentali: ridurre i costi delle transazioni internazionali (soprattutto quelli di conversione in dollari per commerciare con Paesi che non implicano la partecipazione di aziende Usa) e, fattore divenuto sempre più rilevante, evitare la macchina delle sanzioni sempre più spesso messa in moto dagli Usa per colpire qualsiasi Paese che, a loro modo di vedere, metterebbe a rischio il loro ruolo egemonico. Prima del 2000, oltre l'80% delle nazioni del mondo commerciavano più con Washington che con Pechino. Nel 2018, grazie all'incremento dell'import-export cinese, questo dato è crollato scendendo al 30%, con Pechino divenuta nel frattempo primo partner commerciale di 128 degli altri 190 Paesi esteri. Oggi, cinque anni dopo, la Cina è primo partner commerciale di oltre 140 tra Paesi e regioni nel mondo.

Il contrasto tra la situazione economica reale e l'architettura politico-finanziaria mondiale è sempre più evidente e le contraddizioni tra queste due dimensioni alimentano diseguaglianze e squilibri in tutto il mondo, a partire dai Paesi in via di sviluppo. La politica di costante aumento dei tassi di interesse adottata dalla Federal Reserve per ridurre l'inflazione negli Stati Uniti ha rapidamente deprezzato le valute delle economie meno avanzate rispetto al dollaro (come già successo in passato), incrementato i costi di importazione e scatenato una generale fuga dei capitali esteri da questi Paesi, sempre meno capaci di far fronte al pagamento degli interessi.

Le crescenti difficoltà di Washington, certificate anche dal recente declassamento deciso da Fitch, che ha tagliato il rating USA da AAA ad AA+, e l'eventuale inaffidabilità di un mercato dei Treasury da 25.000 miliardi di dollari, sono fattori indubbiamente preoccupanti al di là delle reazioni nervose della Casa Bianca e della stessa Fed. Se la Cina dovesse risultare l'unica vera ancora di salvataggio per gran parte (se non la totalità) dei Paesi in via di sviluppo, è legittimo rivendicare una grande riforma della governance economica e finanziaria mondiale che tenga in giusta considerazione il crescente peso del suo mercato e della sua valuta. Una storia vecchia, divenuta sempre più attuale.


L'autore Fabio Massimo Parenti è professore associato di studi internazionali e Ph.D. in Geopolitica e Geoeconomia

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