La strategia dell’Indo-Pacifico, Perché gli Stati Uniti promuovono questa strategia?

2023-08-02 17:04:34

Profittando di questa strategia, gli Stati Uniti cercano di consolidare la propria posizione di dominanza, aderire all’ideologia delle Guerra Fredda e fomentare il confronto dividendo i campi in base all’ideologia.

Ormai è chiaro che Washington sta vivendo, a partire almeno dal 2007, anno della grande crisi economico-finanziaria di Wall Street, una fase di lento ma inesorabile declino politico, economico e dunque anche diplomatico, che ne ha accresciuto l'arroganza sino a minacciare apertamente il conflitto armato nel caso qualche altro attore globale dovesse frapporsi sulla strada del loro disperato tentativo di alterare il corso della storia ed impedire la loro discesa. Per sua struttura mentale, le élite da decenni al comando negli Stati Uniti ragionano secondo un'idea che concepisce il dominio del pianeta come unica via per la sopravvivenza in quanto superpotenza. Come dire: "O stravinco o perisco".

Si tratta di un competitivismo degenerato e di una concezione estremamente violenta e pericolosa perché non ammette la possibilità di retrocedere nemmeno di qualche gradino, diventando la seconda, la terza o anche la sesta economia mondiale. Restare tra i primi dieci Paesi per PIL nominale, infatti, garantirebbe ancora alle famiglie e alle imprese americane un benessere diffuso, addirittura eliminando le conseguenze più nefaste delle guerre commerciali dichiarate negli ultimi anni tramite il massiccio ricorso a sanzioni, dazi punitivi ed embargo. Su tutte, quella con Pechino, avviata da Donald Trump, che pure aveva cominciato a negoziare per risolverla poco prima che scoppiasse la pandemia (Fase 1 dell'Accordo - gennaio 2020), ed inasprita da Joe Biden, che nel giugno 2021 ha addirittura esteso, tramite un ordine esecutivo, la lista delle aziende cinesi sottoposte a pesanti restrizioni.

Uscendo dalla dimensione prevalentemente commerciale della propaganda di Trump, Biden non ha affatto ripristinato le relazioni economiche precedenti, come qualche analista si attendeva. Tutt'altro. Sulla scorta della retorica democratica, l'inquilino in carica della Casa Bianca ha invece rispolverato una lettura fortemente ideologica delle relazioni internazionali, fondata sul concetto di scontro tra democrazie e autocrazie richiamando, a grandi linee, la vecchia impostazione neoconservatrice che contraddistinse l'Amministrazione Bush jr nella prima metà degli anni Duemila. Non è un caso che molti protagonisti di quella sciagurata stagione interventista, sebbene di area repubblicana, abbiano sostenuto Biden durante la campagna elettorale contro Trump.

Falchi neocon e falchi liberal insieme, dunque, per quella che appare come l'ultima crociata statunitense per cercare, disperatamente, di realizzare quanto delineato poco dopo la metà degli anni Novanta nel Project for a New American Century (PNAC)? Qualcosa di simile. Eppure, di impossibile. Praticamente tutti gli esperti di economia e geopolitica danno quasi per scontato che questo sarà molto presto, e definitivamente, il secolo dell'Asia. La decisione di andare allo scontro aperto con la Russia vorrebbe riportare le lancette dell'orologio della storia al secolo scorso, fomentando l'opinione pubblica intorno ad una guerra di principio che, in realtà, non ha alcuna ragion d'essere se non quella di utilizzare il campo di battaglia ucraino per affossare un competitor intermedio, in attesa dello scontro con il competitor principale: la Cina.

Ogni incontro, ogni tentativo diplomatico ed ogni accordo apparentemente commerciale o esplicitamente militare degli Stati Uniti è ormai unicamente indirizzato al contenimento dell'unica potenza che sia stata finora in grado di raggiungere - e in alcuni settori persino di superare - lo strapotere tecnologico americano. Lo ha fatto - ed è qui il punto fondamentale - attraverso la costruzione e l'efficientamento di un sistema politico ed economico diverso da quello liberale/liberista: un modello alternativo che ha ispirato e sta ispirando decine e decine di Paesi in via di sviluppo, ormai strettamente legati a Pechino. Il modello dell'economia socialista di mercato è stato ufficialmente sistematizzato nel 1992. Così, in poco più di un trentennio, il Beijing Consensus ha via via eroso il Washington Consensus in numerose aree del pianeta. Una tendenza immutabile ma anche una situazione inaccettabile per chi ancora detiene, come eredità del secolo scorso, le redini all'interno dell'assetto politico-istituzionale del pianeta: ONU, FMI, Banca Mondiale, non a caso tutte radicate in territorio statunitense.

La decisione di adottare una nuova terminologia, imponendola sottilmente sulla stampa mainstream occidentale, è conseguenza di una precisa (folle) volontà: frenare lo sviluppo socio-economico della Cina, bloccare l'Iniziativa Belt and Road (BRI) e portare il Paese asiatico al collasso nel giro dei prossimi dieci anni. Tra i neologismi creati ad hoc, da qualche tempo ce n'è uno geografico molto in voga: Indo-Pacifico. Con questa espressione, i think-tank di Washington, e dunque i loro discepoli europei, intendono l'intera macroregione formata dai due oceani e dai Paesi che vi si affacciano.

Inutile dire che appare assurdo anche soltanto pensare che Stati Uniti ed UE possano impostare, da migliaia di chilometri di distanza, una strategia efficace su un territorio così vasto, dove coabitano, tra gli altri, Cina, Giappone ed India, ovvero la seconda, la terza e la quinta economia mondiale, e numerosi Paesi emergenti particolarmente brillanti, soprattutto nell'area ASEAN. I già forti legami economici e commerciali tra Pechino e gli altri attori della regione Asia-Pacifico sono destinati ad aumentare ulteriormente grazie alla spinta della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), la più vasta area di libero scambio al mondo, in vigore ormai da oltre un anno e mezzo. Oltre a Cina, Giappone, Corea del Sud e ai dieci Paesi ASEAN, di questa fanno parte anche Australia e Nuova Zelanda, regni del Commonwealth, perni dell'anglosfera e membri storici del Five Eyes: una vera e propria breccia che Pechino è riuscita ad aprire nel cosiddetto "blocco occidentale" grazie alla crescente attrattività del suo mercato interno. Riuscire a coinvolgere questi Paesi in una futura guerra contro la Cina, tramite un nuovo pretesto (ad esempio la questione taiwanese), è del tutto impensabile. Piattaforme come il Quadrilateral Security Dialogue (Quad), tentativi disperati di ricreare una sorta di meccanismo NATO in Asia, devono senz'altro destare preoccupazione nella comunità internazionale ma sono comunque destinate a fallire.

Se la Russia può aver sottovalutato la capacità di reazione ucraina sul piano militare, la NATO ha sicuramente sottovalutato la resilienza russa sul piano economico. Chi ha palesemente fallito nel tentativo di portare Mosca al collasso con un mix di massicce sanzioni e pesanti forniture militari all'avversario, può realisticamente credere di poter fermare la ben più potente e dinamica economia cinese ed il suo vasto apparato militare?


L'autore Fabio Massimo Parenti è professore associato di studi internazionali e Ph.D. in Geopolitica e Geoeconomia

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