È convinzione ampiamente diffusa quella secondo cui viviamo una fase del mondo caratterizzata dalla fine della globalizzazione. Da quando Trump ha avviato la guerra commerciale americana contro la Cina, a marzo 2018, il termine decoupling (con il suo portato politico, ossia l’obbiettivo manifesto di separare completamente l’economia cinese da quella americana) è diventato di uso comune nel dibattito politico in Occidente. Nel frattempo, al bando americano contro la Cina in cinque settori chiave (commercio, dati, persone, investimenti, tecnologia) si è aggiunto un ulteriore piano di competizione con la Cina, voluto dal presidente americano Biden: la presunta contesa mondiale tra democrazie ed autocrazie.
Ma questa linea di demarcazione con la supposta possibilità di dividere il mondo in aree completamente disconnesse tra di loro è realmente fattibile? E soprattutto: è conveniente? Se guardiamo al lungo elenco dei Ceo delle principali aziende americane in visita in Cina il mese scorso, prima delle visite ufficiali del Segretario di Stato e del Segretario del tesoro Usa, sembra che l’idea di abbandonare la Cina non sia così largamente condivisa dal mondo imprenditoriale americano. Eppure alcuni segnali di questa inversione di tendenza esistono: il rapporto tra esportazioni mondiali di merci e servizi e Pil mondiale (che indica il grado di apertura – quindi interconnessione – dell’economia) ha avuto un piccolo calo dal 2018, ma soprattutto si è provato a realizzare, se non un decoupling completo, almeno un nearshoring o un friendshoring. Si tratta di una regionalizzazione degli scambi basata sull’accorciamento delle catene globali del valore e la scelta di fornitori geograficamente più prossimi o politicamente più affini.
Su iniziativa dell’Ue, che vede al suo interno contrasti a questa linea americana di scontro totale con Pechino, è entrato in voga nel lessico politico anche un altro termine: il de-risking, ossia il tentativo di ridurre la propria vulnerabilità economica.
Ma è analizzando le presunte cause che hanno innescato questa situazione che ci imbattiamo in un paradosso. Uno dei nodi del contendere tra area euro-atlantica e Cina è la denuncia dei primi, a danno del governo cinese, di interferire nell’attività economica, introducendo effetti distorsivi sul mercato globale. Eppure il ruolo dello stato americano nello sviluppo tecnologico e nella ricerca di base in settori chiave non è meno determinante. E lo stesso vale per le decisioni politiche che hanno un impatto sulla crescita economica del proprio paese ed effetti sugli altri. La decisione di sovvenzionare al 70% l’investimento dell’azienda statunitense Micron Technology per costruire un impianto di produzione di chip in India non è forse un ottimo esempio di come lo stato (americano, in questo caso) usi il proprio potere per indirizzare l’economia? Nel caso specifico, l’intento è cercare di sviluppare poli produttivi che possano danneggiare la produzione mondiale che oggi avviene in Cina. E la stessa strategia di costruzione di alleanze internazionali che hanno l’intento dichiarato di rallentare lo sviluppo tecnologico (e quindi economico) della Cina, non avviene forse con una primazia della politica sull’economia e le regole del mercato? Ammesso e non concesso che si tratti di due sfere separate come vorrebbe la vulgata neoliberale.
Andando al sodo, questa strategia americana si configura né più né meno come una mossa estrema per creare artificialmente un vantaggio tecnologico in alcuni settori strategici quali semiconduttori, informatica quantistica ed intelligenza artificiale, impedendo lo sviluppo contestuale della Cina. Non deve stupire pertanto che il presidente cinese abbia reagito affermando: «i paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, hanno messo in atto un'azione di contenimento, limitazione e soppressione a tutto campo sul nostro Paese, portando sfide gravi e senza precedenti al nostro sviluppo».
Proviamo a capire la portata di questo processo di de-globalizzazione. Si parla molto di decoupling e de-risking, ma i numeri restituiscono una realtà molto diversa da quella percepita. Cominciamo col sottolineare il fatto che il commercio tra Cina e Stati Uniti nel 2022 ha raggiunto un nuovo record. Il che dimostra che c’è ancora una forte domanda e fiducia da parte di imprese e consumatori riguardo alla cooperazione tra i due paesi, nonostante le tensioni degli ultimi tempi.
Secondo i dati dell'US Bureau of Economic Analysis (BEA) , le importazioni e le esportazioni totali sono cresciute del 2,5% rispetto all'anno precedente, raggiungendo i 690,6 mld di dollari, superando il precedente record stabilito nel 2018. Nel 2022 la Cina è stata il terzo partner commerciale degli Stati Uniti dopo Canada e Messico ed è rimasta la loro principale fonte di importazioni. Gli Usa sono diventati il terzo partner commerciale della Cina dopo l'ASEAN e l'UE. Anche la portata degli investimenti è rilevanti: secondo i dati dell'Office of the United States Trade Representative nel 2020 gli investimenti diretti cumulativi in Cina da parte delle imprese statunitensi hanno raggiunto i 124 mld di dollari.
Chiaramente negli anni sono aumentati i fenomeni di near e friendshoring ma l’analisi di questi fenomeni ci racconta una trama molto diversa dalla separazione complessiva voluta dai cantori del decoupling.
Secondo stime note già da tempo, il 40% del valore delle esportazioni messicane negli Usa è costituito da parti e componenti made in Usa. Non si tratta quindi della selezione di fornitori più vicini, ma di una delocalizzazione di fatto da parte di aziende multinazionali statunitensi. Guardando al sudest asiatico si nota che le importazioni statunitensi sono in rapida espansione e, contemporaneamente, si registra un aumento vertiginoso di investimenti diretti della Cina, che nel 2020 ha raggiunto quota 14,36 miliardi di USD. Nel periodo 2017-2021, per esempio, la quota di contenuti importati dalla Cina nelle esportazioni del Vietnam è quasi raddoppiata. Molte delle imprese cinesi e locali nel sudest asiatico si riforniscono dalla Cina per ciò che riguarda le componenti impiegate nelle esportazioni statunitensi.
Alla luce di questi dati, diventa evidente che l’immagine di una netta separazione delle economie americana e cinese è alquanto sfocata.
Certo, rimane il tema delle tecnologie avanzate: nel 2023 molte altre società cinesi sono state inserite nell’elenco dei soggetti sottoposti a restrizioni sui flussi di determinate tecnologie e beni provenienti dagli Stati Uniti. Ed altri paesi come il Giappone ed i Paesi Bassi si stanno aggiungendo alla chiamata per limitare le esportazioni di apparecchiature per la produzione di semiconduttori in Cina. Ma rimane lecito porsi la domanda se tutto questo beneficia l’economia mondiale e, nel caso specifico, l’Europa. Diversi studiosi fanno notare come politiche protezionistiche si rivelino inefficaci e dannose. L’innalzamento di barriere e dazi soffoca la domanda interna del paese che li applica, innescando una depressione del mercato globale. I sussidi statali per incentivare la produzione domestica, di converso, generano maggiore domanda di beni importati da altri paesi, quindi contribuiscono all’allargamento dell’economia, non alla sua chiusura. Inoltre il disaccoppiamento tecnologico solleva crescenti preoccupazioni sulla crescita globale a breve e lungo termine. Secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale, il disaccoppiamento può colpire la crescita globale lungo tre canali diretti: la riduzione dei flussi commerciali globali, la cattiva allocazione delle risorse e la minore diffusione della conoscenza a livello transfrontaliero.
In una tale competizione, che porta con sé il rischio di un paesante rallentamento della crescita globale, l’Europa si trova a giocare una partita che non è la sua, dalla quale rischia di uscire come l’unica grande sconfitta. Perché perde la funzione di collegamento tra Est ed Ovest degli scambi globali, ma soprattutto rischia di non poter essere al passo col volume di sussidi statali ed investimenti pubblici che Stati Uniti e Cina sono in grado di mettere in campo. Inoltre la struttura economica europea è profondamente diversa da quella statunitense, avendo una componente molto importante legata all’export. Per cui a differenza degli Usa è più vulnerabile agli effetti indesiderati delle politiche protezionistiche. E c’è un altro problema. Se n’è avuto un assaggio con il varo dell’Inflation Reduction Act (pacchetto di investimenti sulle energie rinnovabili), una politica Usa che ha pesanti conseguenze negative sull’industria europea. Questa vicenda dimostra che gli Stati Uniti non sono interessati a sostenere, né a difendere, la crescita economica dei suoi propri partner. Cosa ne sarà dell’Europa, privata del legame economico e commerciale con l’Asia e le economie emergenti, in un blocco euro-atlantico dove vigono questi rapporti di forza?
Di fronte a questo scenario diventa esiziale per noi europei una presa di visione delle strategie che si stanno delineando in campo e salvaguardare i nostri interessi vitali. Una prospettiva che solo un mondo che sceglie la cooperazione e la pace può garantire.
L'autore Francesco Maringiò è il presidente dell’Associazione italo-cinese per la promozione della Nuova Via della Seta