In Occidente ci stiamo abituando negli ultimi tempi ad una rappresentazione del mondo binaria: democrazia versus autocrazia, comunità internazionale contro il resto del mondo, etc. Così facendo stiamo continuando ad alimentare uno scontro che non è nell’interesse di nessuno. Riflessioni sulla democrazia ed il dialogo, a partire dal Forum Internazionale sulla Democrazia tenutosi a Pechino.
Nel luglio del 2019, subito dopo aver lanciato la sua corsa alla Casa Bianca, Joe Biden annunciò che avrebbe convocato un “summit globale per la democrazia” al termine del suo primo anno di mandato presidenziale, chiamando a raccolta il “mondo libero”. Non era la prima volta che da parte degli Stati Uniti venivano avanzate proposte di questa natura. Solo per stare al periodo post guerra fredda, nel 2000 venne lanciata la Comunità delle Democrazie durante la presidenza Clinton, l’Alleanza delle Democrazie (2004) prima e la Freedom agenda (2008) poi nell’era Bush e la D-10 Strategy Forum del 2014 durante la presidenza Obama. Tutte queste iniziative avevano l’obiettivo di proiettare il modello americano nel mondo e tutte hanno ripreso linguaggi e slogan del periodo della guerra fredda. Soprattutto, il tratto distintivo era quello di considerare le Nazioni Unite come un organismo oramai in difficoltà e quindi inadatto a far fronte alle esigenze dei tempi. La nascita di tali organizzazioni aveva lo scopo dichiarato di sostituirsi all’Onu nel caso in cui fosse necessario. Nella politica internazionale quegli Stati che tendono a “rivedere” e modificare l’assetto stabilito da convenzioni e trattati vengono definiti revisionisti. Sebbene tale definizione in Occidente venga usata per descrivere paesi come la Cina, a rigor di logica bisognerebbe prendere atto che la vera potenza revisionista del nostro tempo sono gli Stati Uniti che, soprattutto nella fase unipolare, hanno messo in discussione il diritto internazionale ed il ruolo delle Nazioni Unite.
È anche per sistematizzare il suo punto di vista, sottraendolo ad una lettura distorcente, che la Cina ha lanciato l’anno scorso il Forum sulla democrazia, la cui seconda edizione si è conclusa l’altro ieri a Pechino.
Il tema è estremamente delicato. Chi scrive si è formato ed ha costruito una propria coscienza civica in Occidente, imparando ad apprezzare e difendere i principi del proprio sistema democratico incardinati nella Costituzione italiana. Ma il confronto con il dibattito emerso nel corso del Forum internazionale sulla democrazia organizzato a Pechino obbliga a sistematizzare una discussione ed una riflessione fuori dalla reductio ad unum dello scontro tra democrazie ed autocrazie. Una delle vie di banalizzazione della discussione è quella di assolutizzare la democrazia occidentale come l’unica possibile. Per fare ciò, si appiattisce il processo democratico solo nella sua dimensione formale, trasfigurandolo in una procedura ed un metodo completamente avulso dal suo contenuto economico-sociale. È per questa ragione che il professore Zhang Wei Wei, decano della Fudan University, definisce tale approccio col termine di “democrazia procedurale”. Eppure l’etimologia greca del termine chiarisce che non vi può essere alcuna scissione tra forma e contenuto della democrazia, che nasce dall’unione di “demos” (popolo) e “kratos” (potere) e quindi il contenuto di classe e la natura sociale del regime politico è la base del sistema democratico stesso. Pertanto nell’analisi sulle forme della democrazia bisognerebbe prestare attenzione innanzitutto alla natura della struttura socio-economica della democrazia e poi alle forme della sua sovrastruttura politica, non dimenticando inoltre il ruolo del percorso storico e del grado di sviluppo di ciascun paese. Solo così si evita di confondere il legittimo dibattito sulle forme di organizzazione della democrazia con la pretesa di una sistematizzazione teorica del rapporto gerarchico tra sistemi politici, come spesso accade nel così detto “Occidente collettivo”.
A questo Forum di Pechino, a cui sono stati invitati più di 300 delegati da oltre 100 paesi del mondo, hanno preso la parola non soltanto rappresentanti cinesi o del così detto “sud globale”, ma anche rappresentanti dei paesi occidentali. Questo non solo ha permesso un dialogo concreto, ma obbliga tutti noi ad assumere l’altro punto di vista nelle proprie riflessioni. A tal riguardo, mi sembrano molto pertinenti alcune riflessioni del professor Carlo Rovelli, tra i 100 migliori pensatori del mondo secondo la rivista Foreign Policy, che invita tutti noi occidentali ad uscire fuori dalla nostra bolla e prendere consapevolezza di come il mondo considera e valuta le nostre analisi. Utilizza proprio il termine “bolla” per descrivere l’auto-rappresentazione che in Occidente diamo della così detta comunità internazionale che vuole continuare ad imporre il proprio dominio sul resto del mondo e di come in realtà questa è percepita. Da qui l’invito a non pensare in termini di scontro, ma di ascolto e collaborazione, come unica via per fare il bene di tutti e salvare l’umanità dal rischio di un nuovo, devastante, conflitto.
L’autore Francesco Maringiò è il presidente dell’Associazione italo-cinese per la promozione della Nuova Via della Seta