[In altre parole] Frammentazione e deglobalizzazione: rischi concreti oltre la retorica

2023-01-20 12:32:03

Oltre due anni di pandemia e quasi uno di guerra hanno sconvolto le catene di approvvigionamento globali come mai era successo prima d'ora negli ultimi quarant'anni, provocando una vera e propria frammentazione economica globale. Secondo un rapporto del Fondo Monetario Internazionale, pubblicato lo scorso 15 gennaio, questa tendenza potrebbe innescare una contrazione della produzione mondiale fino al 7%. Tale previsione numerica, in sé forse algida e criptica al grande pubblico, nasconde in realtà potenziali rischi concreti che il documento spiega in modo chiaro: se nel passato l'approfondimento delle relazioni commerciali ha portato ad una riduzione significativa della povertà globale e a maggiori benefici per i consumatori a basso reddito delle economie avanzate, d'ora in avanti tutto ciò potrebbe essere a rischio.

Nel corso degli anni Settanta emersero prepotentemente diffusi fenomeni di terziarizzazione, outsourcing ed offshoring, che cominciarono a ridisegnare il modello di sviluppo dei Paesi occidentali, intrecciando progressivamente i loro mercati a quelli dei Paesi in via di sviluppo. Sistematizzata dal neoliberismo di Ronald Reagan e Margaret Thatcher per gran parte degli anni Ottanta, la nuova tendenza, anche a seguito del crollo dell'URSS e del blocco di nazioni che componevano il Patto di Varsavia, avrebbe ben presto conquistato l'intero pianeta, internazionalizzando i mercati finanziari ed aprendo le porte all'era della globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta fino a pochi anni fa.   

Da allora, al netto di dazi specifici o sanzioni mirate, l'allungamento delle catene globali del valore non era mai stato messo in discussione. La dispersione geografica dei processi di produzione e spedizione sembrava poter tranquillamente caratterizzare l'economia mondiale anche negli anni a venire. Le frizioni tra potenze e i loro interventi militari in contesti circoscritti (Iraq, Somalia, Balcani, Afghanistan, Georgia, Libia, Siria ecc.) non avevano mai intaccato le dinamiche della globalizzazione, talmente forti e consolidate da resistere anche alla crisi finanziaria del 2007-2008. Quell’evento produsse in pochi mesi un effetto a catena sul mondo intero, danneggiando in particolare le economie dei Paesi avanzati. Dal vertice di Washington del novembre 2008, il G20 fu così potenziato coinvolgendo non più soltanto i ministri delle Finanze dei Paesi membri ma direttamente i loro capi di Stato o di governo, aumentandone il peso politico e l'autorevolezza istituzionale. La risposta messa in campo dai decisori politici di fronte a quella grande crisi fu così, almeno nelle intenzioni, un ampliamento della cooperazione e del coordinamento a livello globale, tanto che appena tre anni dopo, superando incertezze e tentennamenti, anche la Russia decise di entrare nel WTO.

Il ritorno a decise misure protezionistiche negli Stati Uniti, in verità cominciato durante il secondo mandato Obama, aveva già iniziato a mettere in discussione la globalizzazione, improvvisamente criticata proprio nei Paesi che avevano maggiormente contribuito a costruirla. Il 2016 è stato indubbiamente un anno spartiacque: prima il referendum che ha sancito l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea, poi la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. La pandemia, più esattamente, ha rappresentato dunque una palla che i teorici occidentali della deglobalizzazione hanno potuto cogliere al balzo per provare a portare avanti i loro piani di decoupling, ribaltando la narrazione sull’integrazione dell’economia globale. Anche in questo caso, l’occidente entra in contraddizione con se stesso e così facendo continua a perdere legittimazione internazionale. Le voci e le azioni a favore della deglobalizzazione derivano infatti da una crisi di identità occidentale e sono guidate da interessi miopi di natura geopolitico-strategica, portati avanti ed imposti dagli Usa ai propri alleati europei.  

Certamente, viste ad esempio le carenze di dispositivi di protezione e macchinari medici lamentate dai sistemi sanitari europei nella prima metà del 2020 o di grano a causa del blocco delle navi cargo ucraine tra marzo e luglio 2022, riportare a casa anche soltanto alcune filiere produttive può teoricamente rappresentare un fattore decisivo per non farsi trovare nuovamente impreparati qualora dovessero verificarsi nuovi sconvolgimenti, ma questo processo di reshoring è molto più facile a dirsi che a farsi: dopo quarant'anni di delocalizzazioni andrebbe infatti ricostruito, in parte o addirittura del tutto, un know-how complessivo. La più realistica prospettiva del near-shoring, cioè di accorciare le filiere, necessita comunque di molti anni e, per quanto riguarda l'Europa e in particolare l'Italia, non tiene adeguatamente conto della ricorrente instabilità di regioni sensibili come i Balcani e l'area MENA (Medio Oriente e Nord Africa). È senz'altro vero che da diversi anni stiamo assistendo ad un processo di regionalizzazione di molti accordi commerciali attraverso la costruzione di aree di libero scambio, unioni doganali o persino di mercati comuni in tutto il mondo, ma l'Unione Europea, che pure è stata musa ispiratrice per molti di progetti di integrazione in Asia, America Latina ed Africa, appare vittima di una condizione di estrema debolezza intrinseca per tre aspetti in particolare: scarsità di materie prime strategiche (petrolio, gas, terre rare ecc.); unificazione monetaria (che priva i singoli Stati membri di strumenti di politica monetaria adeguati alle esigenze contingenti); assenza di un dispositivo militare comune e autonomo dal quadro NATO (che costringe Bruxelles a restare solitamente schiacciata sulle posizioni di Washington).

In altre parole, gli Usa stanno imponendo una nuova regionalizzazione economica basata sulla frammentazione e quindi regressiva, ben diversa dalla regionalizzazione che favoriva la crescente integrazione ed interdipendenza tra diverse macroregioni dell’economia mondo.

Se le tendenze alla chiusura e al protezionismo nei confronti delle economie emergenti dovessero intensificarsi da qui ai prossimi anni, ignorando il peso (non solo demografico) di mercati come Cina, India, ASEAN o Mercosur, il rischio per l'Occidente sarebbe quello di ritrovarsi isolato e scarsamente competitivo. Citando la più importante tra queste, cioè la Cina, ricorrono quest'anno i dieci anni dal lancio della Belt and Road Initiative (BRI): bersagliato da innumerevoli politici e  opinionisti occidentali – in modo infondato e pregiudiziale – il mega-progetto di connessione intercontinentale voluto dal presidente cinese Xi Jinping sembra ad oggi - complice anche una leadership USA sempre meno affidabile ed una UE debole e impotente - l'unico vero asse logistico su cui può reggersi la rinascita della globalizzazione, evitando che l'economia mondiale crolli su sé stessa.


L'autore Fabio Massimo Parenti è professore associato di studi internazionali e Ph.D. in Geopolitica e Geoeconomia

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