[In altre parole] Riscaldamento globale, cambiamenti climatici e sicurezza alimentare

2022-08-19 17:15:24

Il dibattito sul cambiamento climatico

La questione del cambiamento climatico, divenuta di forte attualità nel corso degli ultimi anni, ha generato molte scuole di pensiero. Tuttavia, esse possono essere essenzialmente suddivise in due grandi filoni: chi sostiene che le attività umane siano state e siano tutt'ora determinanti e chi invece ritiene che queste rappresentino soltanto una minima parte tra le varie conc-cause, prevalentemente di origine naturale, che hanno portato alla situazione attuale.

Il dibattito scientifico alimenta da tempo, specie nei Paesi occidentali, un aspro confronto politico tra posizioni ambientaliste e negazioniste (o comunque riduzioniste). Hanno fatto il giro del mondo, lo scorso 10 luglio, le dichiarazioni superficiali di Donald Trump durante un comizio ad Anchorage, in Alaska, riguardo l'innalzamento degli oceani.

Un ragionamento più attento e lungimirante, tuttavia, imporrebbe di considerare la questione dei cambiamenti climatici semplicemente come situazione acquisita. Reversibile o meno, il processo di modificazione è cominciato e l'aumento della frequenza con cui gli eventi atmosferici estremi colpiscono diverse aree del pianeta ci costringerà a modificare alcune abitudini consolidate e ad intervenire a livello strutturale per impedire catastrofi umanitarie sempre più gravi.

Clima e sicurezza alimentare

La sicurezza alimentare è quella più colpita dalla crisi climatica in corso, che si aggiunge agli shock geopolitici. La desertificazione dell'Africa Settentrionale, secondo alcuni studiosi provocata millenni fa proprio dall'azione umana, ha a lungo condizionato le colture e le abitudini alimentari delle popolazioni autoctone, costringendole a ricercare altrove terreni o prodotti altrimenti irreperibili, attraverso il commercio, la conquista manu militari o un insieme di entrambe le cose.

Ancora oggi, prolungati periodi di siccità provocano fame o malnutrizione in molti luoghi del pianeta. Una di queste è il Corno d'Africa, in particolare l'Etiopia, dove nei cinque mesi precedenti all'estate si è verificata la più grave aridità degli ultimi quarant'anni. Eventi simili determinano perdita di raccolti e di bestiame, nonché migrazione forzata di milioni di persone, generando fame e crescente povertà.

Da un lato, dunque, dovremo ricorrere a nuovi modi, più efficienti e sostenibili, di produzione nell'ambito agro-alimentare e nelle industrie derivate. Dall'altro sarà fondamentale ridurre quanto più possibile l'impatto sul territorio, sia urbano che rurale, attraverso metodi di coltivazione alternativi, come ad esempio l'idroponica, laddove l'erosione o la salinizzazione ha ormai compromesso il suolo; la messa in sicurezza delle zone a rischio; e il contrasto al dissesto idrogeologico. 

Sullo sfondo, ovviamente, deve restare sostanzialmente intatto l'impegno di tutti i Paesi aderenti agli Accordi di Parigi e alle indicazioni della COP26 a frenare e bloccare gradualmente il riscaldamento globale, in modo che l'incremento della temperatura media terrestre resti al di sotto degli 1,5 °C rispetto all'era pre-industriale.

Armonizzare diversi percorsi di sviluppo

Durante il vertice nella città scozzese di Glasgow dello scorso anno, dai BRICS, specie da Russia, Cina ed India, sono arrivati pareri discordanti e persino inviti ad un più concreto realismo in particolare in merito al raggiungimento della cosiddetta "neutralità carbonica", ovvero l'azzeramento definitivo delle emissioni di CO2. Se Europa e Stati Uniti hanno insistito per un accordo sul 2050 come termine massimo per l'obiettivo, Pechino aveva già da qualche anno indicato il 2060, così come anche la Russia, mentre l'India ha ribadito addirittura la sua fermezza sulla data del 2070.

Descritte da molti media mainstream come potenze irresponsabili, in realtà la distribuzione storica pro-capite delle emissioni nocive, dalla prima era industriale ad oggi, ci mostra che Pechino e Nuova Delhi hanno responsabilità quasi irrilevanti rispetto ai Paesi occidentali. Senza dimenticare che molti Paesi emergenti emettono CO2 anche per noi, ovverosia producono gran parte di ciò che consumiamo in Occidente. Non solo: il deficit cronologico accumulato rispetto alle economie avanzate ha consentito loro di riorientare in tempi relativamente brevi la pianificazione industriale in senso sostenibile. Dall'inizio degli anni Novanta ad oggi, infatti, sono costantemente cresciuti gli sforzi dei due Paesi asiatici, in particolare della più avanzata Cina, in termini di efficientamento energetico ed idrico, riforestazione e rivitalizzazione delle aree rurali.

Anziché immaginare un mondo di privazioni, come stiamo facendo noi occidentali, non senza legittime criticità e obiezioni, nei Paesi emergenti non è certo pensabile poter frenare una fase di espansione come quella in corso, prima ancora che questa abbia consentito alla gran parte della popolazione di accedere ad una dimensione di classe media. Non tanto per una questione meramente morale o di "giustizia storica", quanto piuttosto per il concreto rischio di destabilizzare sistemi in via di sviluppo che coinvolgono una quota consistente della popolazione mondiale.


L'autore è Fabio Massimo Parenti, Professore di Economia Politica Internazionale

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