Ultima India (Sandra Petrignani)
  2010-09-29 13:08:15  cri
Sandra Petrignani
Ultima India

È strano questo tempio. Ha il tetto a pagoda e una struttura lignea aperta come lo scheletro di una nave. Il vento è libero di attraversarlo. Ma infatti non è un vero tempio, è un teatro, o meglio è un tempio della danza dove gli studenti tengono le loro rappresentazioni. Ayyappam, senza interpellarmi, ha preso una magnifica decisione. Mi ha portata a Kalamandalam, che è l'Accademia di antiche arti teatrali e musicali del Kerala, profondo sud indiano. Un campus insomma, alto sulla collina, isolato, dove i giovani vengono a studiare per anni i segreti di movimenti misteriosi in cui ogni atteggiamento delle dita, degli occhi, della bocca ha un significato diverso, è un'indicazione psicologica, umorale.

Adesso Ayyappam dorme, stanco del viaggio. Dorme disteso sul fianco, con la guancia appoggiata al braccio allungato oltre la testa, mentre il Danzatore Cosmico continua a ballare indifferente alla sua innocenza. Come è giusta questa indifferenza divina, com'è insensata la convinzione che un dio si preoccupi del nostro destino. Com'è solo e indifeso Ayyappam in questo momento, abbandonato in forma di sacco in balia del Signore della Danza che non lo guarda, che non sa della sua esistenza e deve continuare a ignorarla nei secoli perché non può un dio farsi carico di esistenze da nulla. Siamo noi, le creature, a doverci fare carico di dio. E infatti Ayyappam se ne fa carico, si fa carico di tutti i suoi numerosi dei. Ha allungato i tempi del viaggio per fermarsi al tempio di Kali, di Ganesh, di Vishnu. A ognuno dava un obolo, s'inginocchiava prendendo un'aria lievemente inquieta, si cibava di un intruglio sacro che offriva anche a me. E intanto mi faceva da guida, senza tralasciare niente.

"Treno, treno", diceva indicando un convoglio straripante di gente appesa fuori dagli sportelli aperti che ha proceduto per un po' parallelo a noi finendo col superarci.

"Taxi, taxi". Così imparavo che anche il taxi in India si può prendere a grappolo, con gli uomini più giovani ventosamente in piedi su predellini e paraurti.

"Non è prudente", avevo detto stupidamente, quasi la scena esigesse un commento. Ayyappam si è limitato a girarsi mostrandomi tutti i bianchissimi denti e gli occhi buoni scintillanti.

"Elefante, elefante". Sì, lo vedevo che era un elefante, ma non ne avevo mai visto uno attraversare la sabbia abbandonando i custodi per andare a tuffarsi nel fiume. Non lo avevo mai visto sguazzare quasi fosse un cagnolino, mettersi a pancia in su, farsi la doccia con la proboscide come nelle immagini dei libri per bambini. E allontanarsi dalla riva incurante dei richiami umani per guardare beffardo i suoi accompagnatorie i loro cenni perentori. Chissà cosa lo ha convinto alla fine a tornare indietro, la sconfinata pena per l'ansia degli uomini che gli si leggeva negli occhi stanchi? Comunque è uscito dall'acqua. Gli hanno agganciato la catena alla zampa e senza protestare ha subito i colpetti solleticanti di una lunga canna di bambù che ritmicamente uno dei due custodi gli agitava contro il fianco, andando.

Gli spazi vuoti, interni o esterni, aiutano la concentrazione. Questo tempio-zattera è vasto e vuoto. Per assistere alle rappresentazioni il pubblico si sistema sul pavimento a gambe incrociate. Non esistono sedie. La vita gode di una meravigliosa semplificazione. Il palcoscenico-altare è un piano appena rialzato con quattro colonne che reggono un tetto-baldacchino. Ma ora non ci sono attori, non ci sono musicisti, non ci sono ballerini. Ci sono due visitatori qualunque, un uomo e una donna. L'uomo ha la pelle nera, la donna è bianca. L'uomo dorme, disteso su un fianco sul fresco pavimento del tempio. La donna è seduta all'indiana e lo guarda dormire, contagiata dalla serenità immobile di quel posto estremo, infinito. Sono lontani da tutto e nessuno al mondo sa che si trovano lì, tranne il guardiano che ha aperto la porta e li ha lasciati subito. Guardiano? Chissà, era un indiano bellissimo, alto e snello, con la camicia bianca e il dhoti ripiegato in modo da lasciare scoperte le gambe, gambe scure e sottili, dalle lunghe caviglie e i piedi magri calzati in sandali di cuoio. Un danzatore, forse, che al tramonto avrebbe indossato il costume di Shiva e avrebbe ballato nel cerchio di fuoco.

Nella penombra la statua bronzea del dio sembra muoversi. È necessario pregare. E pregare in un posto così è lasciarsi andare al ritmo naturale del respiro, ritmo dormiente, preciso; liberare la mente da ogni pensiero; coincidere con quel punto segreto di sé che coincide col dio; dimenticare. Il tempo è sospeso. Passa solo quello dell'orologio, quello del giro del sole. Mezz'ora, un'ora, dieci minuti? Non guardavo l'ora da tanto e dunque l'ora non conta. Non abbiamo fretta, nessuno ci aspetta, nessuno è preoccupato per noi. Vorrei allontanarmi in punta di piedi per non disturbare il sonno di Ayyappam, andare a seguire le lezioni degli artisti e poi tornare a prenderlo. Ma il suo sonno è come quello di un gatto. Si sveglia di colpo. Forse ha sentito le scosse del pavimento, anche un piede nudo crea vibrazioni. Me lo ritrovo accanto sorridente, allegrissimo.

"Ho dormito, ho dormito. Stanco, stanco", e fa il gesto internazionale delle due mani unite contro la guancia inclinata. Tutta la sua goffa massa diventa leggera in quel gesto, il suo testone assume una grazia delicata. Gli sorrido riconoscente di essere il mio angelo custode, anche se non corro alcun rischio.

Eppure, appena fuori dal tempio, un soffio caldo di giungla ci investe e sembra una minaccia. L'arida vegetazione selvaggia potrebbe nascondere serpenti. Siamo dentro una foresta scheletrica e arsa. Le costruzioni sparse, lontane l'una dall'altra hanno l'aria abbandonata e in rovina che ha sempre qualsiasi edificio in India, pronto a ridiventare polvere il più in fretta possibile. Dunque andiamo insieme, silenziosi. Ayyappam mi apre varchi fra i cespugli, seguiamo sentieri appena accennati, quasi che nessuno ci avesse camminato da lungo tempo invece di essere gli affollati percorsi di studenti in corsa fra una lezione e l'altra. Nella prima casetta bianca seza vetri alle finestre, senza battenti nel vano della porta, senza altro arredo delle foglie secche trascinate dal vento, stanno quattro giovani seduti a gambe incrociate, vestiti solo del dhoti, la pezza rettangolare che si annoda intorno ai fianchi; stanno perfettamente immobili a parte un curioso strabuzzamento degli occhi. Ayyappam li guarda vagamente impensierito. Sono io a spiegargli questa volta, sottovoce: "Fanno gli esercizi degli occhi. Anche gli occhi danzano nel kathakali".

L'edificio centrale, grande, visibile, è una vera e propria scuola. Ma ragazze e ragazzi sono seduti ovunque tranne che nei banchi: in terra, sui muretti, nei vani delle finestre e ripassano ad alta voce ciò che vanno leggendo nel quaderno, parole in sanscrito. Esattamente come li vede Michaux: "…seduti dappertutto tranne dove potrebbe apparire plausibile… (chi mai può sapere dove andrà a sedersi un gatto?), così è l'indiano…" Le ragazze nei sari coloratissimi, alzano lo sguardo e sorridono fugacemente agli sconosciuti.

Più tardi avrei scritto a casa: "…fermarsi qui a studiare il sanscrito, artisti come monaci, separati da tutto, dormire sulle stuoie in camere senza armadi, in case che non sono case ma ripari, danzare per gli dei, concepire l'arte come una preghiera. Perché noi pensiamo che l'arte sia uno scambio fra esseri umani. Ci sbagliamo. È uno scambio fra esseri umani e esseri divini. È un rito, e i riti richiedono complicità infinite con gli dei".

Seguo Ayyappam verso una musica di tamburelli. Lezione di Bharathanatyam, l'antica danza sacra. L'insegnante batte il tempo, le ragazze avvolte in stoffe azzurre e arancio tutte uguali, solo diversamente scolorite, inarcano i corpi, uniscono le dita, incrociano i piedi nudi, scuotono i sopraccigli, cantano nenie incantevoli. Mai visto niente di più soave: come può resistere un dio?

Adesso il guardiano-ballerino che ci aveva aperto il tempio è di nuovo con noi e ci spiega che è stato un poeta a volere questa scuola-eremo, regno del Danzatore Cosmico. Si chiamava Vallathol Narayana Menon e la sua statua grandeggia davanti all'edificio principale, l'unico con i vetri alle finestre.

"Ma i poeti non hanno soldi", dice il guardiano. Ha gesti principeschi, la mano si allartga lentamente quando la muove per indicare. "Fu il maharaja del posto a concedergli la terra e i finanziamenti per realizzare il suo sogno".

Però di lui non resta né una statua, né una fotografia. Quel maharaja sapeva che i suoi meriti risplendevano agli occhi degli dei, cosa poteva importargli della fama tra gli uomini? E quando veniva a sedere nel tempio e i danzatori portavano per lui Shiva in persona sulla terra e l'Uno diventava Tutto e Tutto l'Uno, egli, commosso nel profondo, perso nell'Assoluto, poteva spogliarsi di mortalità e comando e semplicemente essere un nulla, ovvero, finalmente, un tutto.

No, no, insisteva quello e gli faceva vedere ancora una volta come bisognasse prima sistemare un lembo in un certo modo e poi girare la pezza dalla parte opposta. Ma anche se si fosse appropriato di quella tecnica, il povero Marc, biondo e slavato, magro di nevrosi e non per fame, non avrebbe potuto aspirare al fascino di un uomo indiano. Non aveva la concentrazione altera dei sikh, alti e robusti, ma nemmeno il modo eretto di camminare che ha qualsiasi ragazzo in India, anche il meno dotato e quel modo infinitamente sensuale di agitare i lembi del dhoti con le mani sopra le gambe nude. Anche al piccolo grasso Ayyappam non mancava quella grazia speciale.

A Cochin avevo conosciuto un attore di katakhali cui fioriva un pollice in più innervato nel tronco del pollice giusto. Da noi una simile escrescenza sarebbe stata eliminata nei primi giorni di vita. Lui aveva fatto del pollice doppio un motivo superiore di bellezza, tanto da non esserne disturbato in un lavoro come il suo dove anche le mani, le dita, parlano e hanno un ruolo centrale nell'espressione e nella danza. "I segni della malattia e della miseria non sono 'sventure': vengono da lontano, vanno lontano; migrano da vita a vita, certificati dagli interventi degli dei": Giorgio Manganelli.

A Benares, continuo a preferire questo nome, in un putrido vicolo del Chowk, il quartiere a ridosso dei gaths, melmoso di escrementi e di polvere dei morti, mi è apparsa improvvisamente una bambina. Bruna, bellissima, accovacciata. Sola nella stradina diversa, tranquillamente triste. Avevo nella borsa un bacio Perugina che ha guardato con ammirazione luminosa. Gliel'ho dato. La sua bocca è diventata un sorriso di luce, gli occhi si sono allargati di sorpresa. Non mi aveva chiesto niente, non aveva allungato la mano meccanicamente. Era pura solitudine, tristezza. Una volta tanto avevo potuto fare un regalo, non elemosina. In cambio ho avuto uno sguardo lungo dove stava acquattata una singolare conoscenza, come un amore speciale conservato da tanto tempo per essere donato al momento giusto e offrire e prendere la felicità improvvisa di un conforto reciproco. Non ci incontreremo mai più, ci incontreremo in continuazione.

Quando si torna da un viaggio in India e la gente ti chiede come è andata, senti che la domanda è carica di aspettative. Non è la stessa distratta gentilezza con cui ci si informa: be', ti sei divertito a Edimburgo? O: com'è la Cina? È invece sempre come se volessero sapere: insomma l'hai trovato l'Assoluto, l'Uno-Senza-Secondo, quella cosa il cui centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte? Almeno questo, sì, l'ho trovato, nel senso che posso rispondere all'indovinello. Il centro si sposta con noi, siamo noi quel centro.

Quando mi viene paura di volare, penso che è una paura sciocca, perché siamo sempre e comunque in volo nell'universo. Siamo su un'enorme pietra rotolante sospesa nel vuoto. "Perché la terra non cade? Perché è in posizione simmetrica rispetto a ciò che la circonda. Non v'è ragion sufficiente perché cada". Chiunque l'abbia sostenuto non mi convince. Per quel che ne so, stiamo sempre precipitando. E, questo l'ha detto Marco Aurelio, i casi sono due: o ci sono gli dei, qualcuno in alto che si prende cura di noi, e allora tutto va per il meglio. Oppure non ci sono e allora, facciamo del nostro meglio.

Roma, gennaio 1996

桑德拉•佩特里尼亚尼

《最后的印度》

这座庙宇颇有些怪异。它有着塔式的屋顶和一种类似于船骨架的木质结构,风很容易就能将它穿透。其实,这里并不是真正的庙宇,而是一个剧场,或者更确切地说是一个舞台,是学生们表演舞蹈的地方。阿亚帕姆毫不犹豫地做出了一个决定。他把我带到了卡拉曼达拉姆,这里是喀拉拉邦传统舞台与音乐艺术学院所在地,位于印度南端。学院独自坐落在山坡之上,每年都有学生到这里来学习那些神秘的舞蹈动作的秘密:手指、眼睛和嘴的每个动作,都代表着不同的含义,不同的心理状态和情绪。

旅途的劳累让阿亚帕姆很快就睡着了。他侧卧着,用手臂垫着头,面颊枕在手臂上。舞神仍在无忧无虑地舞着。他的这种毫不在乎的态度其实也很正常,毕竟,神是不会为我们的命运担忧的。这个时候的阿亚帕姆是孤独的,毫不设防的,被舞神抛在一边。舞神没有看他,也不知道他的存在,并且在今后的几个世纪里,仍会继续忽略他的存在,因为神是不用对任何生命负责的。到是我们这些人类,应该对神负责。事实上,阿亚帕姆是在负责,对他那些为数众多的神灵负责。他延长了旅行时间,为的就是能在嘎里、伽尼什和毗湿奴神庙多停留一下。在每个神庙,他都会留下一定数额的供奉,并且双膝跪地,面露微微的不安神色,沉浸于神圣之中。这情景让一旁的我也受到了感染。当然,他并没有忘记为我作导游,该介绍的都没有遗漏。

"火车,火车",他指着窗外一辆车门和车窗上挂满人的汽车喊道。那辆车原本是和我们并排走着,后来超过了我们。

"出租车,出租车。"到了印度我才知道,出租车在这里也是可以一次载好多人的,年轻人们会冒险站在车门下的脚踏板上,迎风而立。

"太不小心了",我吃惊地说,恐怕没人知道似的。阿亚帕姆只是转过神,露出他雪白的牙齿和那双闪亮的大眼睛。

"大象,大象。"是的,我看到了,那是一头大象,但我从没看到过大象穿过沙地,抛开守护人,跳到河中。我更没见过大象像小狗一样在水中嬉戏:它肚皮朝上,用长鼻子汲水洒在身上,那情景只有在儿童画书上才看得到。它全然不顾守护人的召唤,远离了河岸,远远地嘲笑着守护人和守护人冲它做出的那些不容置辩的手势。不知道最后是什么让它折返回来,但在它那略带倦意的眼中,也许有那么一点对人类的恻隐之心吧?总之,它上了岸。守护人把链子套在它的腿上。不容它有任何挣扎,其中一个守护人就用竹子杆在它体侧不疼不痒地打了几下,随后便牵着它离开了。

不管是内部空间还是外部空间,只要是空旷的,都可以帮助我们集中精神。这座筏式庙宇很宽敞,也很空旷。庙里没有椅子,看演出的观众需要盘腿坐在地板上。生活在这里简单到了极致。舞台高出地面一截,由四根柱子支撑着,上方有帐顶。但现在舞台上没有演员,没有乐师,也没有舞者。这里只有两个游客,一个男人和一个女人。男人肤色黝黑,女人是白种人。男人侧躺在庙宇清凉的地面上睡着了,女人则坐在一旁看着他。在这静谧的庙宇中,她的面庞也是同样的平静安详。他们似乎远离尘世,没有人知道他们在那里,除了那个看门人。看门人在给他们打开门以后,就马上离开了。看门人?这是一个长相英俊的印度男人,高高的个人,身材颀长,身着白衫,系着裹裙,露出肤色黝黑的双腿,细细的脚踝下是一双皮质凉鞋。说不定他也是个舞者,也会在太阳落山后穿上湿婆神的服装,在篝火边起舞。

半明半暗中,青铜神像仿佛在动。祈祷是必须的。在这样的地方祈祷,能让人畅快自由的呼吸,这呼吸是匀称的,干净的;能让人心无杂念;能让人的内心与神灵相契合;能让人忘记。时间停滞了。只有钟表在走,只有太阳在转。半小时,一个小时,还是十分钟?我好长时间没有看表,时间已经不重要了。我们并不着急,没人在等我们,也没人为我们担忧。我不想打扰阿亚帕姆的梦乡,踮起脚尖准备离开,想先去听听艺术家们的课,然后再回来接他。但他就像一只小猫,睡得很轻,一下子就醒了。也许是感到了地板的震动吧,哪怕是光着脚走在上面也会引起轻微的颤动。睡醒了的他微笑着,心情很是愉悦。

"我睡着了,我睡着了。我太累了,太累了。"他双手合十放在脸侧,做了个睡觉的手势。大大脑袋的他在做这个动作的时候显得煞是可爱。我笑了。是的,他就是我的守护天使,尽管我不会遇到什么危险。

走出神庙,一阵带着热带丛林气息的暖风扑面而来。被太阳晒干的野生植物中可能还藏着蛇。我们身处一片干枯的树林中。这里房屋不多,相互间的距离也很远,仿佛与世隔绝一般。如同印度随处可见的建筑,它们似乎随时都有可能倒塌,灰飞烟灭。我们一言不发地走着,阿亚帕姆在灌木丛中给我开路。树林中有一些人为踏出的小径,看起来形成的时间并不长,可能只是来上课的学生们踩出来的。我们见到的第一座房子是白色的,窗框上没有玻璃,门上也没有门板,房子里只有满地被风吹来的干枯树叶,和四个盘腿而坐的年轻人。他们每个人身上都只系着一条布裹裙,在胯部打着结。他们坐在那里一动不动,只有眼睛在不停地转动。阿亚帕姆有些担忧地看着他们。这次轮到我低声告诉他:"他们正在做眼睛的联系,因为在卡塔卡利舞蹈中,眼睛也是会跳舞的。"

中间的建筑规模很大,很是显眼,这里是一所真正的学校。这里的男孩女孩们坐得到处都是,但就是没人坐在凳子上:有坐在地上的,坐在墙垛上的,坐在窗洞里的。他们高声朗读并重复着笔记本上用梵文记录的话。正像米修所看到的那样:"……他们随处而坐,就是不坐在该坐的地方……(谁又能知道一只猫会坐在哪里呢?)印度人就是这样"。身着色彩艳丽的莎丽服装的女孩子们偶尔会抬起眼,朝陌生人露出一个微笑。

我想我回家以后会这样描述现在的感觉:"……在这里学习梵文的艺术家们就像是僧侣,与世隔绝,住在没有家具的房间里,睡在草席上,这里的家其实就像避难所。他们在这里为神而舞,感知神一般的艺术。为什么我们要说艺术是人与人之间的交流呢?我们错了。艺术是人与神之间的交流。是一种仪式,一种需要与神灵无限契合的仪式"。

有鼓声传来。我跟着阿亚帕姆循着声音找了过去。这是一堂婆罗多舞课程,一种古老的圣舞。老师打着鼓点,一群女孩子随着节奏将身体弯曲成弓形。女孩们身上都裹着天蓝色和橙色相间的衣裙,只是有些人的衣服已经有些褪色。她们手指交叉,光着的双脚也交叉着,抖动着眉毛,唱着迷人的小调。我从没见过如此温柔美妙的场景:恐怕就算是神也无法抵御吧?

就在这时,我们又见到了之前给我们开神庙大门的那个看门人。他告诉我们,这所隐居在树林中的学校,舞神的王国,是在一个名叫瓦拉托•纳雅亚纳•梅侬的诗人的提议下修建的。如今他的塑像就竖立在学校最主要的建筑前,那是唯一窗框上安着玻璃的房子。

"可是诗人没有钱",看门人两手摊开做了个没钱的手势,"是当地的王公给他拨了土地和能让他实现梦想的资金。"

可这里不仅没有王公的塑像,甚至连一张照片都没有。因为他知道,他的功劳是会被神灵看到的,尘世间的荣誉对他来说又算得上什么呢?每当他来神庙的时候,舞者们都会用舞蹈将湿婆舞神带到人间,让他成为宇宙的唯一。深受感动的他,超脱了凡世间的束缚,达到无为的状态,与宇宙融为一体。

……

不,不,他还在坚持,又给人演示了一下到底该怎么整理衣角和如何把裹裙从另一边转过来。可就算用了那种方法,可怜的马克也不可能拥有一个印度男人的魅力。马克金色头发,面色苍白,神经官能症让他身形消瘦。他没有身材高挑健壮的锡克族人的那种唯我独尊的气势,走起路来甚至比不上最普通的印度男孩,完全没有挺拔笔直的感觉,就更不要提那用双手将裹裙系在光腿上的迷人动作了。就算是小胖子阿亚帕姆,在做这个动作时都能展现出一种特殊的优雅。

在科钦,我结识了一个卡塔卡利演员,他正 常的大拇指上还侧生出另一个拇指。要是在我们国家,这样的赘生物会在婴儿出生后不久就被切除。然而双拇指对他却意味着更有韵味的美,而且丝毫没有影响他的工作。对他来说,双手和手指都是会说话的,在舞蹈表达中起着最主要的作用。焦尔焦•曼加内利说过:"疾病和痛苦留下的痕迹并非'不幸':它们来自远方,去向远方,代代流传,带着神的印记"。

在瓦拉纳西,其实我更喜欢它的原名贝拿勒斯,在泥泞的贫民区中一条弥漫着腐烂味道的小街上,一个小女孩突然出现在我面前。她褐色头发,很漂亮,一个人蜷缩在街角,安静得有些悲伤。我包里正好有块佩鲁吉娜巧克力,她一直眼巴巴地盯着看。我把巧克力递给她。她脸上立刻绽放出一个灿烂的笑容,眼神里满是惊讶。她并没有问过我什么,也没有机械地向我伸过手。她的孤独和悲伤是那么的纯粹。这一次,尽管她并没有乞讨,但我还是把礼物给了她。作为回报,我得到的是一份长久的注视,那目光背后是一种独特的隐藏了许久的爱,正期待着在适当的时候得到赠予,并施予他人出乎意料的幸福和满足感。也许以后我们不会再见面了,但其实我们又何尝不是一直在见呢。

……

当你从印度旅行归来,总有人会问你旅途怎么样,而且对你的回答充满期待。这种提问完全不同于随便客气一下的那种问法,比如:"哦,你在爱丁堡玩得还开心吧?或者是,中国怎么样?"对印度,他们是真心想了解:你找到神了吗,找到那种独一无二的感觉了吗?找到那种随处都是中心,可处处又费中心的感觉了吗?是的,我想我找到了,我可以回答这个谜语。中心围绕着我们在转,而我们就是那个中心。

当我恐惧坐飞机的时候,我觉得这种恐惧很是愚蠢,因为我们其实一直都在宇宙里飞着。我们就在一块漂浮在空气中的大圆石头上。"为什么地球不会跌落呢?因为它所处的位置和围绕在它周围的物体是相对称的,所以没有理由会跌落。"所有这么想的人都说服不了我。据我所知,我们一直是处在跌落的过程中的。正如古罗马皇帝马可•奥勒留所说的那样:可能性有两个,要么是神灵在天上照顾着我们,让一切朝着好的方向发展;要么就是根本没有神灵存在,我们只能尽己所能。

罗马,1996年1月

(王蕾蕾 译)

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