Eastern Leaves: la storia di Lorenzo e Vivian, un lungo viaggio alla scoperta di culture diverse seguendo le foglie del tè(2/6)

Andrea De Pescale 2020-07-27 00:38:43
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Nel sottobosco di una foresta secolare sulle montagne yunnanesi di Nannuo e Pasha si estendono le piantagioni di tè selvatico di Lorenzo Barbieri e Vivian Zhang, i fondatori di Eastern Leaves, un’azienda italo-cinese dedita alla produzione biologica di tè pu’er, tè bianco e tè rosso. È in questo angolo di Cina, permeato di saperi, culture e tradizioni secolari, che Lorenzo e Vivian hanno deciso di iniziare il loro lungo viaggio alla scoperta di storie e sapori dimenticati.

Il primo appezzamento di terra da loro acquistato riuniva 14 piccoli lotti mai utilizzati prima. Fin da subito fu maturata una scelta importante che ha poi determinato la qualità dei futuri tè marchiati Eastern Leaves: riconoscere e preservare il valore di quei terreni secolari, affidandosi totalmente alla maestosità dell’antico suolo di Nannuo e Pasha.

Non stupisce che Lorenzo e Vivian amino autodefinirsi custodi di una foresta di tè, piuttosto che semplici agricoltori. Una definizione che rispecchia la missione in cui si sono impegnati e avvalora la filosofia abbracciata sin dalla fondazione della loro attività.

Le montagne yunnanesi su cui si adagiano le piantagioni di Eastern Leaves sono estremamente dolci se paragonate alle Alpi. Si potrebbe dire che siano piuttosto colli immensi, molto estesi, avvolti dalla nebbia che sale dalle valli larghe e aperte. “Salire verso Nannuo partendo da Xishunagbanna significa lasciarsi alle spalle un paesaggio di banani e alberi della gomma, e polvere e fuochi di sterpaglia, per vedere sempre più verde ai bordi della strada, con bambù e presto alberi da tè, mentre l’aria si rinfresca a ogni chilometro”, racconta Lorenzo. A questo punto la strada si restringe sempre più fino a scomparire del tutto e lasciare il posto a un sentiero sterrato, da percorrere a piedi, in moto o con jeep molto solide. “È questo il tratto che porta alle nostre foreste”.

Dopo aver attraversato tratti di bosco molto fitto, tratti di coltivazioni di tè intensive, altri alberi di tè più maturi, fioriture, macchie di piccoli abeti coltivati per il legno, qualche capra, dei bufali, o delle vacche, molti terreni bruciati in attesa di essere coltivati, si arriva infine alle porte dei 30 ettari forestali acquistati da Lorenzo e Vivian, delimitati dall’ergersi del bosco.

“Percorrendo i sentieri interni ci si imbatte in ampie zone d’ombra e alcune radure, con rive scoscese che si alternano a falsi-piani molto dolci. Il sottobosco è abitato da alberi di tè, felci, passion fruit, acacie, magnolie e moltissime altre specie, che compongono una diversità incredibile e originale di questa terra, senza la quale i nostri sapori non sarebbero gli stessi”.

Un concetto fondamentale su cui si fonda la produzione di Eastern Leaves è quello di “terroir applicato al tè”. “Le foglie nella nostra teiera appartengono a un preciso albero cresciuto in certe condizioni climatiche e geografiche, e soprattutto, quello su cui insistiamo, è un prodotto del tempo e delle epoche, e delle generazioni che si sono susseguite sulla stessa terra affinandone le tecniche di coltivazione e di processazione. Si tratta di un distretto produttivo antichissimo, dove ogni più piccola fase della produzione trova professionisti eccellenti, e questo è fondamentale perché il risultato finale rappresenti la maestosità di queste terre”.

Da qui la profonda attenzione riservata alle tecniche e ai saperi acquisiti nel corso di secoli da chi abita le montagne di Nannuo e Pasha. Lorenzo la definisce un’azienda locale. Senza la minoranza Hani che abita il monte Nannuo da decine di generazioni non esisterebbe Eastern Leaves, che si affida ai saperi coltivati da secoli dai locali. L’intero personale tecnico è locale: tea-master (colui che detta i tempi di lavorazione e che lavora manualmente i batch più preziosi), raccoglitori, addetti alla cura del bosco sono tutti della zona.

Durante il periodo di raccolta si raggiunge la foresta poco dopo l’alba, non appena la rugiada si è asciugata. “Da qui iniziano tanti chilometri a piedi per le rive del bosco, supportando la raccolta, e viaggi in jeep trasportando le foglie fresche nel laboratorio dove il tea-master comincerà a prendersene cura, prima di iniziare la lavorazione in serata”.

È sulla sensibilità del tea-master che si basa tutta la trasformazione delle foglie forestali di Eastern Leaves e che nascono i pu’er, i tè bianchi e i tè rossi generati dagli antichi terreni di Lorenzo e Vivian. La lavorazione del pu’er avviene soprattutto di notte, su fuochi di legna, mentre i tè bianchi e i tè rossi hanno un ciclo continuo di più giorni.

“Dopo una cena abbondante di montagna, spesso arricchita con erbe raccolte il giorno stesso, si va dunque ai fuochi, che si lasciano dopo mezzanotte. Ogni sera, ogni notte, si sentono i canti locali uscire dalle case. I bambini fino ai 6 anni non conoscono mandarino, né abiti che non abbiano i colori dei loro antenati. Soprattutto, tra le 15 minoranze etniche dell’area di Xishuangbanna, è impossibile sentirsi stranieri: la mia italiana è solo la 16esima minoranza e non mi è mai capitato di sentirmi chiamare ‘straniero’, mai”, racconta Lorenzo.

Lorenzo è nato in una terra di confine, proprio come lo Yunnan. In una campagna rustica e ora semi-abbandonata. Un ramo della sua famiglia ha sempre lavorato la terra, mentre l’altro nonno è stato allevatore e rosticciere di successo. Preparava le materie prime – carni rare, insaccati, tartufi e funghi delle loro terre – per i futuri ristoranti stellati di Milano.

“In Eastern Leaves a posteriori mi sono accorto di aver unito entrambe le anime: da un lato il fascino per la campagna, e l’intento di migliorarne le condizioni; dall’altro la cura per il dettaglio che rende un sapore profondo e complesso, nitido nella nostra memoria emotiva. È bellissimo ricalcare le orme di qualcuno vissuto prima di me, di cui porto il sangue”.

Il primo incontro cosciente con l’Asia di Lorenzo è nell’adolescenza, quando trovano posto fisso nella sua mente nomi come Singapore, Makassar, Manado, Maluku, presi dai romanzi e dai racconti di Maugham, che funsero da sue prime guide di viaggio. “In quei libri c’erano i cinesi della diaspora, come quelli raccontati nel Terzani di un ‘Indovino mi disse’, mentre la mia Cina sarebbe arrivata molto dopo, nel 2007, due giorni dopo la mia laurea”.

“I primi ricordi di Cina per me sono i cantieri di una Pechino pre-olimpica. Poi è arrivata l’esperienza del continente, e quel che la Cina ha rappresentato per la mia crescita: una geografia fatta di spazi immensi con persone in perpetuo movimento per distanze che non conoscevo, all’interno di uno stesso continente in costante, apparente stravolgimento culturale, che andava togliendo la polvere dell’ennesima rivoluzione dal suo essere così antico e solido”.

“Da una parte io, italiano ed europeo, che volevo capire dov’ero assaggiando e mangiando, provando il sapore della terra per comprenderne la cultura; dall’altra una società di miei coetanei molto più preoccupata per una carriera da costruire in un contesto sì di crescita, ma iper-competitivo, quindi assorbita solo dal lavoro e da ciò che poteva aiutare a rendere la propria vita la più solida possibile, dopo decenni di fragilità”, racconta Lorenzo.

Ma Eastern Leaves non sarebbe mai potuta diventare quello che è oggi senza l’apporto anche di Vivian, compagna di Lorenzo e co-fondatrice. L’incontro tra i due risale al 2007, a Pechino. All’epoca Lorenzo era impegnato a scoprire l’Oriente, mentre Vivian si trovava a costruire la propria identità culturale cinese a confronto col mondo in una città sempre più internazionale e competitiva.

“All’inizio si stupiva di quanto noi in Italia prendessimo sul serio la nostra identità di sapori, di quanto ci fosse di noi nella nostra enogastronomia, nei nostri terroir; e dal suo primo viaggio in Italia, nel 2010, aveva iniziato a scoprire i nostri boschi, e la bellezza dei loro frutti”.

Forte della sua formazione classica, Vivian ha prima arricchito il suo bagaglio professionale con studi di cerimonia del tè, poi con conoscenze più tecniche, andando a studiare nelle varie piantagioni della Cina. Ha iniziato a far parte di una rete di giovani professionisti che stava portando il tè cinese alla qualità di sapori e alla sostenibilità ambientale che competono a prodotti eccellenti, raggiungendo e superando quanto fatto in altri settori in altre aree del mondo. “C’erano decenni da recuperare su nazioni produttrici molto più giovani della Cina, senza tradizione né mercato interno. Nel frattempo, Vivian scopriva sé stessa e la sua storia emergeva dalla terra, con fragranze racchiuse in una tazza. Dopo molti viaggi è arrivato lo Yunnan, e lei ha completato la sua formazione diventando coltivatrice”.

“Con la crescita di Eastern Leaves, ci siamo accorti che la complessità di un’azienda multiculturale che deve operare in un ambiente antico, rispettando un ecosistema secolare, e data una resa infinitesimale rispetto a un’azienda agricola intensiva (i ‘giardini’ di tè), deve necessariamente poggiarsi su infinite nicchie di una moltitudine di mercati internazionali e richiede una direzione complessa, che potevamo trovare solo parlando la stessa lingua non solo nel privato, ma anche a livello gestionale. Dunque nel 2016 ci siamo separati i compiti: io sono rimasto in montagna a gestire foresta e persone, obbligato a trovare la mia lingua, mentre lei è andata a Milano per un master di Food and Beverage che l’ha portata a viaggiare tra le eccellenze italiane, nella sacralità di aziende vinicole fondate nel 1300, e una così forte connessione fra la perfezione del prodotto e la cultura di chi ha contribuito alla sua produzione. Parallelamente ha iniziato il percorso che l’ha portata a diventare da studente nell’accademia del tè cinese a insegnante”, prosegue Lorenzo.

Coniugando i saperi locali con le innovazioni di processo apportate da Vivian e la cura europea del dettaglio per tutte le fasi della produzione si è arrivati a tè pregiati come lo Yueguangbai, che si è aggiudicato la medaglia d’oro al “Prix Epicures” di Parigi. “Lo Yueguangbai ci ha dato una grande soddisfazione, ma devo molto anche al pu’er sheng, che da subito ha impresso nella mente e nel cuore aromi di complessità indimenticabili. Se devo però citare un solo tè cui sono affezionato, allora scelgo il dianhong: per la sua storia di lotta e resistenza, seppur condotta con raffinatezza, e perché fino al nostro arrivo a Nannuo nessuno lo voleva più produrre, certamente non in primavera con foglie di prima qualità. Questo accadeva perché tutti seguivano il mercato, che segnalava quotazioni molto alte per il pu’er sheng e nient’altro. Il tè rosso però faceva parte della mia identità, e quelle fragranze di bosco, di frutta rossa, erano perfette per gli autunni di tutte le nostre case… Vivian ha convinto tutti a provare, ed è stato subito un successo. Presto l’abbiamo prodotto anche con foglie di alberi antichi – azzardo massimo – ed è stata una grande soddisfazione”.

Come ci spiega Lorenzo, il dianhong si iniziò a produrre a fine anni ’30 grazie al Kuomintang, che vi ricorse per finanziare la guerra di resistenza: a quell’epoca tutti i porti erano occupati, così si aprì la Burma Road verso gli inglesi, a cui si pensò di vendere un tè che fosse di loro gradimento, prodotto in terre da sempre dedicate al pu’er. Fu una produzione molto raffinata, che raccolse i migliori tecnici dell’epoca e alcune macchine che esistono ancora, anche a Nannuo, che fu uno dei tre centri principali. Poi purtroppo divenne una coltura industriale degli anni ’80, soprattutto a Lincang, ridotta a foglie piccole ed estive, senza corpo. “Negli ultimi anni si sta tornando a un tè rosso più convincente, spesso asciugato al naturale, dunque in grado di reggere anni, maturando”, conclude Lorenzo.

Come si evince dai suoi racconti, la storia sua e di Vivian narra di un lungo viaggio alla scoperta di culture diverse seguendo le foglie del tè. “Per me è stato un viaggio nella cultura del Paese che mi ospita. Mentre per Vivian si è trattato di un viaggio assai più profondo, attraverso cui ha potuto scoprire la propria identità culturale. Per tutti e due è diventato uno strumento di comprensione, reciproca e del mondo, che entrambi guardiamo e impariamo con i profumi del pu’er ancora umido sulle mani e sulla pelle”.

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