《蒙面之城》-LA CITTÀ VELATA
  2010-09-29 13:54:55  cri
Ning Ken

LA CITTÀ VELATA

Terzo capitolo – Tibet

1.

Ma Ge era fermo sul ponte, l'acqua del fiume Lhasa nel mese di aprile precipitava verso il basso, tra le nevi rimaste come scheggie di specchio. La città si ergeva sulla sponda di destra, gli edifici di pietra bianca riflettevano la brillante luce dell'altipiano, che si stendeva fino alla catena dei monti settentrionali. Il Potala era come un miraggio, sublime nella sua maestà, le misteriose finestre disposte in una fila di incavi profondi, come neri tasti scintillanti nel sole; la sagoma riflessa nell'acqua si arricchiva di musicalità assoluta, sembrava la copia capovolta di un grand'organo. Tra le orbite delle finestre trafitte dal vento, i raggi del sole fluttuavano come ondate di una marea, nell'interno il soffio della brezza, profondo, tranquillo e imponente. Il fiume Lhasa scorreva silenzioso tra uno scintillio di onde increspate, come in un cartellone impressionista. Una città come una melodia, un panorama da natura morta.

Se non si contavano il Palazzo rosso e alcuni templi che spiccavano di toni cremisi, la città era tutta bianca, di un bianco squillante come il registro acuto di un soprano, mentre nei dettagli, il nero deciso delle finestre intarsiate si stagliava netto sul corpo bianco delle mura, vivace, poetico, creando ingenui spazi di diverso colore, incantevoli nella loro purezza e semplicità. Era una città dell'infanzia, fatta con i blocchi di costruzioni, gli ricordò gli splendidi castelli che faceva da piccolo; seduto al pianoforte aveva spesso fantasticato su una città giocattolo ma mai l'aveva immaginata in una luce così brillante. Anche se un bambino non sarebbe stato capace di inventarla così, la candida Lhasa era una città da bambini. Con una luminosità così straordinaria, che tutti i piccoli del mondo sarebbero dovuti andare lì ad incontrarsi nella luce, lungo il fiume, per progettare le loro città, il loro futuro. Avrebbero potuto esserci degli anziani dai capelli bianchi, alcuni vecchi in sedia a rotelle, mamme che spingevano carrozzine, ma il resto sarebbero stati bambini. Lui sarebbe dovuto venire prima. Questa era la città eterna.

Luce, acqua e cielo per l'eternità.

Lì si fermò, in una locanda che si chiamava "Fiore di susino" in via Barkhor.

Ogni giorno vagava per le strade e i vicoli, tra i negozi e i templi, le sale da tè e i lingka, oppure attraversava il fiume fuori città e si addentrava tra le colline e i villaggi remoti, e al crepuscolo ritornava, a bordo di una imbarcazione di pelle di mucca. Certe mattine andava a passeggiare lungo la riva del fiume e trascorreva tutto il giorno sulle sponde deserte in compagnia della sua ombra, fino a quando il tramonto laminava d'oro le acque del fiume. Il cielo di Lhasa non ha un vero orizzonte, ci sono soltanto montagne, e oltre le montagne altre montagne. Non riusciva a veder dove finiva il fiume, i picchi come isole ne ostacolavano il corso. Una volta lasciò la sponda per avventurarsi su una montagna a nord, così riuscì a vedere il fiume nel suo tratto più lontano. Vide che superata senza difficoltà la collina, il bacino in lontananza diventava più largo, si univa a un fiume più grande, era lo Yarlung Zangbo? Pensava di sì.

Scese a valle e entrò nel monastero Drepung che si ergeva alle falde del monte. Era un gruppo di edifici, bianchi gradini scavati nella pietra, la luce splendente lo faceva assomigliare a un tempio dell'antica Grecia. Ma Ge dall'alto aveva osservato il retro del gruppo di edifici, gli piaceva guardare le cose dal di dietro. Uno spazio immenso e disordinato, come un esercito allo sbaraglio, come il fumo quando sale del camino. Ma visto di fronte aveva un aspetto impeccabile, nella sua straordinaria grandezza, da lontano sembrava un bastimento bianco ormeggiato tra i monti. Non aveva una cinta di mura, ma innumerevoli ingressi. Lui ne attraversò il vestibolo per entrare nelle sale interne, dal buio della grande sala si spinse verso l'interno sempre più illuminato, al cui margine brillavano circondate da un'aura, le lampade splendenti. Migliaia di lucerne perpetue illuminavano la divinità, il Buddha Shakyamuni o il patriarca Tsongkhapa, attraverso il corridoio sottotetto la luce del sole penetrava a fatica. Ogni tanto un piccolo raggio si posava sugli stendardi delle formule sacre, ma non ce la faceva mai a raggiungere il terreno. Alla luce delle fiammelle di mille lampade a burro tremolavano le ombre delle genti venute in pellegrinaggio da terre straniere, facendo vacillare l'intera sala misteriosa, il cuore si illuminava ma al tempo stesso tutto si rendeva più oscuro, per questo Ma Ge sentiva che quella brillantezza accecante lo intimoriva. Quel luogo non assomigliava alle chiese cattoliche della sua infanzia, di solito grigie ma con una loro poesia e semplicità, mentre lì c'erano quella molteplicità, quel buio e quella luminosità indescrivibile, che ti costringevano ad arrenderti prostrandoti a terra, altrimenti i tuoi dubbi non avrebbero fatto che crescere.

E Ma Ge di dubbi non ne aveva già abbastanza? Si rifiutava di prenderne altri in considerazione.

Le volte che aveva visitato un tempio si potevano contare sulle dita, perché non sopportava quelle tenebre, e quel bagliore.

A essere onesti preferiva stare fermo ad un incrocio, a guardare la gente che andava e veniva, per decidere quale luogo lo attirasse di più.

2.

Ma Ge non aveva fretta di trovare un lavoro. Aveva ancora qualche soldo in tasca. Se non li aveva spesi quasi tutti, non pensava a procurarsi di che vivere. Una ricerca che non lo preoccupava, perché sapeva fare di tutto e aveva fatto più o meno qualsiasi mestiere. Accumulare denaro, risparmiare per lui non aveva senso. A volte gli piaceva stare accucciato al lato della strada, mescolandosi con i chiaroveggenti, gli indovini che leggevano gli otto trigrammi, i fisiognomisti, gli piaceva quella confusione, era una delle cose più interessanti di quella sua vita. Come era successo altrove, non erano passati due o tre giorni che aveva già fatto comunella con gli indovini tra le bancarelle di Lhasa, loro gli leggevano il futuro senza farsi pagare, lui era finito quasi a far loro da "compare". Dopo aver osservato a lungo, aveva letto qualche libro e se ne era fatto un'infarinatura, e ora con quei semi-dei delle meraviglie della fisiognomia discuteva del libro di Mayi, il maestro taoista vestito di canapa, della Raccolta dello specchio d'acqua e del vecchio patriarca Chen Tuan, parlavano perfino di glifomanzia, l'arte divinatoria della suddivisione dei caratteri dei nomi, e dei diagrammi del Tuibeitu. Anche se di queste cose lui ne capiva poco o niente, alcuni cialtroni a sentirlo esternarsi sull'argomento cominciarono a prendere le distanze con rispetto.

Aveva anche incontrato un vero esperto. Sul monte Qingcheng nei dintorni di Chengdu si era unito per un periodo alle schiere dei facchini che trasportavano cemento, al crepuscolo, in un bagno di sudore si sedeva al fianco del vecchio, dissetandosi a grandi sorsi, e lo osservava leggere il futuro sul viso della gente. Sembrava intorno ai cinquant'anni, aveva un aspetto insolito, il viso segnato da rughe profonde, gli occhi penetranti. Presi i soldi il vecchio lo esaminò, gli disse che le sue sopracciglia erano più lunghe degli occhi, che c'era una certa singolarità nelle proporzioni delle tre sezioni del viso, la "fonte delle lacrime" sotto gli occhi era molto incavata, lui non era un facchino qualsiasi, aveva l'aspetto di chi celava un grande potenziale.

Ma Ge disse: "Cosa mi dici delle dodici case?" Il vecchio fu sorpreso, per un lungo momento rimase in silenzio. La gente comune non sa niente delle dodici case di cui si compone il viso, è un livello superiore nello studio della fisiognomica, se ne parla nella Raccolta della Grotta delle onde lunari annotata da Zheng Qiao in epoca Song, i testi scritti sul bambù che lo stesso Lao Tzu aveva lasciato in quella grotta sul monte Taibai. Per la verità, soltanto un paio di giorni prima Ma Ge aveva comprato una copia della Raccolta completa sulle arti occulte della Cina da una bancarella di Qingcheng e sfogliandola a caso gli era capitata una frase sulle dodici case. A che cosa si riferisse, lui al libro aveva dato appena una scorsa, quindi non ricordava neanche una riga di spiegazione. Il vecchio lasciò andare un profondo sospiro, poi enumerò una a una le case sul viso di Ma Ge, la prima per la vita, la seconda quella della ricchezza, ma il ragazzo aveva già perso interesse. Aveva fatto una sparata, tanto per stupirlo, gli era sembrata una cosa divertente. Il vecchio invece lo aveva preso sul serio, voleva che diventasse suo allievo, che smettesse di trasportare pietre e cemento.

Ma Ge ciondolò per qualche giorno insieme lui, in fondo si trattava di "prendere una parcella per aiutare a scacciare la iella", niente di così nuovo. Una mattina se ne andò senza salutare, ottenne un passaggio in una colonna di camion che percorreva la lunga statale Sichuan-Tibet. Fu soltanto una volta superato il monte Erlangshan, che si sentì in colpa verso il vecchio.

3.

Quando i soldi stavano per finire e non poteva più permettersi di stare nella locanda, Ma Ge si riscosse e andò alla periferia occidentale di Lhasa, trovò lavoro in una cava, spingeva il carretto trasportando le lastre di pietra che servivano a costruire l'Hotel Qomolangma e abitava in una tenda del cantiere. L'alloggio distava quattro o cinque chilometri dallo scavo, e per tre volte la mattina e tre al pomeriggio, Ma Ge sotto il sole cocente correva spingendo le lastre lunghe un metro, passava ogni giorno in un bagno di sudore. Lui o non faceva niente, oppure si ammazzava di lavoro. Non lo faceva solo per i soldi, era una forma di ossessione. Sull'altopiano non c'era ossigeno a sufficienza, gli sforzi facevano venire il fiato corto e il respiro affannoso, lui sfidava se stesso, a sentirlo respirare sembrava un cavallo con l'asma, fino a che il sole non si riempiva di macchie scure, e poi gli diventava tutto nero davanti agli occhi. Allora lui se li stropicciava, e riprendeva ad andare avanti.

La sera era l'unico momento tranquillo della sua giornata. Lui camminava leggero con lo sguardo rivolto al cielo, a volte in strada c'era soltanto lui, tutti hanno un luogo in cui ritornare, per lui c'era soltanto la casa del tè dolce che si chiamava "Neve", nei pressi del Parco dei ladroni, andava lì a bere il suo tè da solo, per ammazzare il tempo. Sullo spiazzo antistante c'era sempre qualcuno che passava tutto il giorno a giocare a carambola, di sera lui era uno spettatore regolare, a volte faceva qualche partita. Non parlava molto, era di umore apatico, non aveva voglia di comunicare con nessuno. Nonostante tutto, si era fatto qualche amico. Erano salariati come lui, migranti, gente che faceva lavori manuali, con cui aveva stretto rapporti banali, per una bevuta nei giorni di festa, niente di più. Con lo sguardo rivolto alla luna riflessa sul fiume, alcuni pensavano alle loro famiglie, alle lune sugli alberi del loro paese. Poi Xie Yuanfu si unì a loro, e l'atmosferà si animò. Era un ragazzo che reggeva bene l'alcol, aveva un vocione che ricordava una campana, era impulsivo e cordiale, non mostrava la minima nostalgia di casa e, inaspettatamente, si definiva un poeta. Era evidente che quando parlava di poesia lui si rivolgesse a Ma Ge, Yuanfu glielo disse più tardi, la prima volta che lo aveva visto lo aveva preso sul serio per un poeta errante. Sapeva che Ma Ge veniva da Pechino, non erano molti i pechinesi che andavano fuori a lavorare, si avventuravano per il mondo, praticamente non si era mai sentito, a parte forse uno o due poeti. Yuanfu era molto orgoglioso di essere nato a Moshui in Sichuan perché era la patria di Guo Moruo.

Ma Ge non aveva idea di che cosa fosse la poesia e questo lasciava Yuanfu molto perplesso, ma allora perchè andava in giro? Il suo interesse per Ma Ge divenne ancora più forte. Yuanfu non doveva faticare molto per farsi degli amici, era affettuoso, generoso, lavorava nel cantiere della sezione tibetana della Federazione dei circoli letterari e artistici, era uno dei pilastri della squadra d'appalto, conosceva la tecnica e aveva alcuni anni di esperienza nelle costruzioni, se non fosse stato per quella sua smania poetica, con le sue capacità e la sua esperienza avrebbe potuto mettere insieme senza problemi un suo proprio gruppo. Il compito della sua squadra era di smantellare alcuni vecchi edifici nel cortile della Federazione, costruire una sala poli-funzionale, e già che c'erano fare un paio di gabinetti di piccola taglia nel giardino. Il progetto dei gabinetti era opera di un artista appena tornato da una visita di studio in Francia, il capo della squadra d'appalto quando vide il disegno corrugò le sopracciglia e mandò a chiamare Yuanfu. Lui si espresse con grande ammirazione, e quindi gli venne conferita la piena autorità del progetto. Yuanfu voleva conoscere i poeti di Lhasa, con la scusa dei gabinetti visitò ripetutamente l'artista disegnatore del progetto, e discusse con lui la struttura, i colori, la scelta dei materiali. Quando si trovava in quella casa, davanti agli scrittori, ai poeti e agli artisti di Lhasa che venivano in visita, lui tirava fuori le sue poesie e le distribuiva in giro, ormai si sentiva un membro del gruppo. A gran velocità completò un'ode intitolata Sacro padiglione e divine acque e la mostrò a Cheng Yan il poeta del sobborgo occidentale, che lui stimava enormemente. Cheng Yan si espresse in termini sorprendenti: a quanto pare le scuregge possono essere materia di versi, la defecazione può diventare un atto poetico, questa è la poesia del ventunesimo secolo.

Cheng Yan era il poeta più importante del sobborgo occidentale, per la maggior parte del tempo viveva a Kalan nella zona settentrionale del Tibet, la sua lunga permanenza in quella terra di nessuno aveva portato lontano la sua fama. Dopo il commento di Cheng Yan, Yuanfu era entrato in un periodo febbrile che era durato tre mesi, passava le giornate come in trance, i versi scorgavano come da una fontana, il gabinetto procedeva a rilento, i materiali scelti erano costosi, il lavoro continuava a essere rifatto, il capo della squadra d'appalto cominciò con l'essere perplesso, poi dubitò che Yuanfu avesse altri interessi, alla fine una mattina davanti a tutti privò Yuanfu della sua autorità. L'ode inaspettatamente scomparve senza lasciare traccia, come una pietra gettata nel mare. Yuanfu pensava che Cheng Yan lo avrebbe raccomandato a una certa rivista autorevole, poi sentì dire da un altro poeta che nove su dieci il comitato editoriale lo aveva "pubblicato" nel loro gabinetto. Yuanfu si infuriò, aspettava di incontrare Cheng Yan per chiedergli conferma di persona. Quando Yuanfu aveva conosciuto Ma Ge, il suo futuro di poeta era ancora nebuloso. Diventati amici, lui una volta durante una bevuta lo costrinse ad ascoltare la sua declamazione del Sacro padiglione e divine acque; quando quello insisteva perché desse un giudizio, Ma Ge che non ci aveva capito niente fece ricorso alla glifomanzia. "Va bene, allora fai questi calcoli!" disse Yuanfu bevendo un gran sorso. Ma Ge effettuata la suddivisione del primo carattere del poema, tra i cinque elementi, dell'oro, legno, acqua, fuoco, terra, ebbe come risultato "fuoco". E così disse "Brucialo".

Yuanfu quella volta si ammalò sul serio, la febbre alta non scendeva, durante la notte delirava. Era stato Ma Ge ad appiccare il "fuoco", lui doveva occuparsi di spegnerlo. Yuanfu aveva la febbre a quarantadue, gli occhi rosso sangue, praticamente sigillati dalle secrezioni. Ma Ge lo portò dal medico, andò a prendere le medicine, lo strofinava con impacchi di acqua fredda per fargli scendere la febbre, dopo una settimana Yuanfu si riprese, ma a quel punto era magro come uno stecco, con gli occhi spiritati, era come se avesse perso un strato di pelle.

Yuanfu si tolse il vizio dei versi. Molti anni dopo ripensando a quella sua avventura poetica, non poteva fare a meno di sospirare, e nominava sempre Ma Ge il suo amico di un tempo, che a quell'ora era già un astro promettente del business delle costruzioni di Shenzhen...

宁肯

《蒙面之城》

第三章 西藏

1

马格站在拉萨河桥上,四月,流域沉落,残雪如镜。城市在右岸上,白色的石头建筑反射着高原的强光,一直抵达北部山脉。布达拉宫幻影一样,至高无上,神秘的排窗整齐而深邃,仿佛阳光中整齐的黑键,而它水中的幻影更接近音乐性,更像一架大管风琴的倒影,窗洞被风穿过,阳光潮水般波动,能听到它内部幽深而恢弘的风鸣。河流静静流淌,拉萨河波光潋滟,如一张印象派的海报。是的,这是个音乐般的城市,静物般的城市。

除了红宫、一些寺院呈现着绛红色调子,这个城市几乎是白色的,高音般的白,但细部,比如白色墙体中的雕窗则是鲜明的黑,明快,抒情,单纯色构成不同的色块,纯粹,简单,迷人。这是童年的城市,积木般的城市,他想起他曾搭建的那些好看的城堡,他在钢琴上幻想一个积木城市,但他无论如何没考虑过这么亮的阳光,甚至这是一个孩子也无法想象的城市,但白色的拉萨又的确是一个孩子的城市。多漂亮的阳光,全世界的孩子都应在这里与阳光相聚,与河流相聚,以决定他们的城市和未来。可以有一些白发老人,比如轮椅上的老人,推婴儿车的母亲,然后全是孩子。他早该来这个城市。这是个永远的城市。

永远的阳光。水。天空。

他在这个城市住下,住在八廓街一个叫"梅朵"的旅店。

每天他游荡于拉萨的大街小巷,店铺寺院,茶馆林卡,在郊外渡过拉萨河,进入浅山和荒村,黄昏乘牛皮舟返回。或者在某个早晨沿河漫步,一整天在空旷的河岸上与自己的影子相伴,直到夕阳将河水镀成金色。拉萨的天边没有地平线,只有山,而且山外有山。他望不到河流尽头,因为岛屿似的山脊挡住了流向。有一次他离开河岸登上北部的一座山峰,这才看到了更远的河流。他看到拉萨河轻而易举就越过了小山脊,远处流域更加宏阔,拉萨河就要与一条更大的河流相遇,那是雅鲁藏布江么?他认为应该是。

他从山顶下来,进入山脚下的哲蚌寺。哲蚌寺是个建筑群体,白色,呈阶梯分布,由岩石构成,强烈的阳光让人感到某种古希腊的建筑风格。马格在山顶上看到了寺院群的背部,他喜欢看一些事物的背部。寺院背部庞大而凌乱,像一支散乱的军队,像炊烟升起之时。但正面看,寺院衣冠楚楚,非常宏大,远处看大体像泊在山中的一艘白色巨轮。寺院没有围墙,有无数人口。他登堂入室,进入了幽冥大殿的厅堂,越往里走越亮堂,尽头处灵光闪烁,灯火辉煌。无数的长明灯照耀着寺院本尊,释迦或一个叫宗客巴的创始人,阳光难以窥入,只能通过天庭的回廊透射。偶有一小束光打在经幛上,根本无法落到地面。千盏酥油灯火苗晃动,因此所有朝圣的异乡的人影也是晃动的,整个神秘的大殿都是晃动的,心被照耀但也更加迷乱,因此马格觉得既灿烂夺目,又有一些惶然。这里不像他童年的天主教堂,天主教堂大体是灰色的,抒情的,简单的,而这里繁复、幽冥、辉煌,让你无以名状,五体投地,如果不,你会有更多的困惑。

而马格的困惑还少吗?他拒绝那些困惑。

他只去过有数几次寺院,他无法接受那里的幽冥与绚烂。

事实上他更愿站在十字街头,看过往人群,决定哪个地方更吸引他。

2

马格不急于找工作。口袋里还有些钱。他不到钱快花光的时候,是不去找饭碗的。他根本不愁饭碗,什么都能干,也差不多什么都干过。攒钱,储蓄对他没有意义。有时他宁愿蹲在街边与一些算命卜卦看相的人混在一起,他喜欢这里的热闹,这是他生活中最有趣的事情之一。像在其他城市一样,没两三天他就与拉萨的卦摊混熟了,人们不断给他算,不收他钱,他几乎成了托。见得多了,他也曾找来一些相书看,知道一些皮毛,他同神相半仙们谈麻衣、水镜、陈抟老祖,甚至拆字测字推背图。虽然他一知半解,但听他侃上几句,一些冒牌的家伙对他便开始敬而远之了。

他也遇到过高人。在成都郊外的青城山,他曾加入了一段时间背夫的行列,往山上背水泥,黄昏时分他一身臭汗坐在了一个老先生旁边,大量饮水,看老先生给人说相。老先生有五十岁的样子,本身就有异相,面部线条强硬,一双锐眼。老头收完钱一眼瞄上他,说他眉长过目,三亭殊异,泪堂深陷,绝非一般挑夫,有大隐之态。

马格说,您再看看我的十二宫如何?老人一愣,半天不说话。十二宫不是一般人能道出的,在相术中十二宫已是上乘境界,它出自宋代郑樵所录《月波洞中记》,系老子当年于太白山月波洞的遗简,马格不过是前两天在青城山的摊上购得一册《中国方术大全》,随便翻了翻,就冒出一句十二宫来。至于十二宫所指他一翻而过,一样也没记住。老先生沉吟了半天,一一历数他脸上的十二宫相,什么一命宫二财帛之类的,马格已全无兴趣。他胡乱放了一横炮,让老头一惊,觉得挺开心。但老头认了真,非要收他为徒,别去背什么水泥石块了。

马格与老头混了几天,所谓收人钱财,与人消灾,也没什么大新鲜的。他在一个早晨不辞而别,随一队卡车踏上了漫漫的川藏公路。已经过了二郎山了,他才觉得有点对不住老头。

3

钱差不多要花光,店住不成了,马格抖擞精神,来到了拉萨西郊,在采石场找到一份挣钱的工作,推着小车向珠穆朗玛大酒店工地运送条石,住进了工地的帐篷。工地距采石场有四五公里,上午三趟下午三趟,烈日炎炎,马格推着一米长的条石在路上奔波,每天大汗淋漓。他要么不干,要么玩命干。不仅是为挣钱,也为一种疯狂。高原缺氧,呼吸短促,他挑战自己,像病马那样呼吸,直到满眼太阳黑子,甚至把整个太阳看黑。他揉揉眼,继续向前。

傍晚,是他一天中宁静的日子。轻飘飘地走路,望着天空,有时大路上只有他一个人,所有的人都有自己归宿,他只有一个地方,就是河边强盗林卡附近一个叫"雪"的甜茶馆,他在那里独自喝茶,消磨时光。茶馆外面空地上有人终日在下克郎棋,他是傍晚固定的观众,有时也与人下几局。他无话,神情淡漠,没有与人交往的欲望。尽管如此,他还是有了一些朋友。同样的打工者,民工,做活的人,关系都一般,逢到节日一起喝顿酒,如此而已。望着河上的月光,有人想家,想家乡树上的月亮。后来一个叫谢元福的人加入,使气氛活跃起来。小伙子酒量很大,声如洪钟,为人豪放热情,没有一丝的乡愁,而他居然声称自己是个诗人。显然他谈到诗是冲着马格说的,元福后来谈起,初次见到马格真以为马格是个流浪诗人。他知道马格是北京人,北京人出来打工闯世界的可不多,甚至从没听说过,大概除了个把写诗的人。元福为自己出生在四川沫水很是自豪,因为那是大诗人郭沫若的家乡。

马格基本不知道诗为何物,这使元福十分费解,那他跑出来干什么呢?他对马格产生了浓厚的兴趣。元福要想与谁成为朋友是不用费什么力气的,他为人热情、慷慨,在西藏文联工地干,是包工队的骨干,懂技术,有几年施工经验了,事实上如果不是他对诗歌的兴趣,凭他的能力和经验他完全可以扯一帮人干了。他们那个施工队主要任务是拆除文联大院一些旧房子,建一个多功能厅,顺便再建两个园林小品式的厕所。厕所图纸出自一位刚从法国考察回来的艺术家之手,包工头看着图纸直皱眉,叫来了元福,元福对图样大加赞赏,于是这活就全权交给了元福。元福渴望结识拉萨的诗人,借着建厕所的机会元福频频拜访那位艺术家、图纸设计者,与他一起讨论厕所的结构、色彩、选材。拉萨的作家、诗人、艺术家前来作客,元福拿出了自己的诗稿分发给大家,他认为已经进人了他们的圈子。他以最快的速度,完成了一组名叫《圣殿与圣水》的诗,呈给了他景仰的西部诗人成岩。成岩收起了元福的组诗,语出惊人:既然放屁可以入诗,排泄当然也可以成为诗歌行为,这是二十一世纪的诗。成岩是西部首席诗人,主要住在藏北卡兰,因长期靠近无人区写作而声名远扬。得到成岩的评论,元福陷入了一场长达三个月的热病,终口精神恍惚,诗如泉涌,厕所进度缓慢,选料昂贵,不断返工,包工头开始迷惑不解,进而怀疑元福别有用心,最后在一个早晨当众剥夺了元福的领导权。而那组诗竟然也一直石沉大海,下落不明。元福还以为被成岩推荐给了某个权威杂志,后来才听另一个诗人说,八成是被杂志社张贴在哪个厕所发表了。元福听了十分愤怒,他要等见到成岩亲自问问。他见到马格时正是他作为诗人前途未卜的时候。与马格成为朋友后,一次在喝酒桌上元福强迫马格听他朗读完了《圣殿与圣水》,马格完全不知所云,硬要他说出好坏他只能采取拆字算卦的方式。 "行,你算吧!"元福喝了一大口酒,马格拆了第一个字后得出结论是"金木水火土的'火' "字。"烧了吧。"马格说。

元福真的病倒了,高烧不退,夜里直说胡话。马格放的"火",马格照料。元福高烧42度,眼睛血红,眼屎几乎封了眼。马格带元福看病,拿药,为元福用凉水擦身降温,一个星期后元福缓过来了,算是捡了条命,但这时他已是骨瘦如柴,两眼像灯,并且几乎蜕了一层皮。

元福戒掉了诗歌。多年后他回忆起这段诗歌经历,不禁感慨万端,总要谈起他当年的朋友马格,那时他已是深圳建筑业后起之秀。

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