Le farfalle di Yasmina (Giovanni Porzio)
  2010-09-29 13:23:25  cri
Giovanni Porzio
Le farfalle di Yasmina

Le capre e le vacche erano state abbeverate e Yasmina si riposava all'ombra di un mango. Le piaceva starsene sdraiata con la nuca appoggiata a una grossa radice, a guardare gli uccellini azzurri nel fogliame scuro dell'albero e le formiche che risalivano il tronco in lunghe file regolari. Come ogni mattina era scesa al fiume con il bestiame, attraverso i campi gialli, bruciati dal sole, in compagnia dei fratelli e degli altri bambini del villaggio.

Era una stagione maledetta, non pioveva da cinque mesi e sul sentiero si doveva stare attenti a non calpestare le spine secche delle acacie. I pozzi scavati nell'alveo asciutto del torrente erano sempre più profondi, sempre più lontani. Per prendere l'acqua bisognava calarsi giù nel fango, riempire le zucche una alla volta, issarle con una corda e svuotarle nelle pozze dove si accalcavano gli animali assetati. Le mosche e le zanzare erano un tormento. Ma ogni tanto comparivano anche le farfalle e venivano a bere nel palmo della mano. Yasmina le sfiorava con lo sguardo, trattenendo il respiro per non spaventarle.

Anni prima suo nonno Ibrahim, che tutti chiamavano abuna, padre, in segno di rispetto, le aveva raccontato una storia che non aveva dimenticato: le ali delle farfalle, le aveva spiegato tornando dal cimitero dove avevano sepolto la sua prima moglie, sono coperte di una polvere magica che le fa volare e ogni colore ha un significato diverso. Il rosso la pioggia, il blu il raccolto, il nero il silenzio, il bianco le voci dei morti.

Cominciava a fare caldo, e c'erano ancora due o tre viaggi da fare tra il pozzo e la casa, con il carico dell'acqua in equilibrio sulla testa. Mezz'ora in salita, mezz'ora in discesa, e il sole sempre più in alto, nel cielo senza nuvole. I più piccoli, nudi e ansimanti, portavano zucche leggere e si divertivano a cantare filastrocche inventate al momento. Yasmina aveva già tredici anni ed era orgogliosa della tunica di cotone e delle mutandine che indossava: le lavava tutti i giorni, battendole con un bastone, e ogni settimana la mamma le faceva bollire con certe erbe della boscaglia che toglievano lo sporco. La sua zucca era pesante, e mentre camminava il sudore le rigava la schiena dritta e i muscoli del collo, tesi nello sforzo. Teneva gli occhi bassi e calcolava in anticipo, con precisione millimetrica, dove avrebbe messo i piedi: il giorno prima si era distratta e aveva inciampato in un sasso, proprio in cima alla collina. Le era toccato tornare al pozzo da sola e sopportare le risate di scherno dei compagni. "Che stupida sono stata!"

Il villaggio di Kalkada era addossato alla montagna, lo si vedeva solo quando ci si trovava in mezzo. Le capanne di fango essiccato e i tetti di paglia avevano il colore della terra e delle rocce ed erano nascosti tra i massi levigati e le monumentali torri dei baobab. La moschea non era che uno spiazzo circondato da pietre che Abud, l'imam, teneva pulito spazzando con un ramo gli escrementi dei polli e delle capre e dove al tramonto, dopo la preghiera, i vecchi si fermavano a parlare.

Un tempo non era così. C'erano case di mattoni, giù in pianura, in fondo alla valle; e la scuola, una moschea col minareto, le botteghe dei mercanti di stoffe e di sementi, i campi coltivati, gli orti, i giardini profumati dei limoni. Ma era prima della guerra e Yasmina non lo ricordava.

Ogni famiglia occupava un gruppo di tukul che si affacciavano su un cortile, cintati da una palizzata di arbusti. La famiglia di Yasmina era numerosa: i genitori, due nonni, uno zio, la sorella maggiore, cinque fratelli, e il recinto era ampio. In un angolo erano sistemati il pollaio, accanto a una tettoia di lamiera coperta di frasche che procurava un po' d'ombra nei pomeriggi torridi, e il granaio, una capanna in miniatura dove venivano conservati il miglio, il sesamo e il dura, il sorgo. Sul lato opposto c'erano le abitazioni e la casetta dei bambini, che dormivano per terra, sulle stuoie. Non avevano finestre, per difendersi dal sole e dagli insetti, e la luce entrava solo dall'ingresso, così basso che solo i più piccoli non erano costretti a piegarsi. Non c'era nemmeno il gabinetto, ma non serviva: bastava allontanarsi tra i cespugli.

Le pareti erano spoglie e i pochi oggetti d'uso quotidiano venivano custoditi con cura: pentole di ferro annerite, vecchi coltelli e cucchiai di alluminio, un paio di bacinelle smaltate, le zucche vuote, qualche rudimentale attrezzo agricolo, una cassa di metallo per gli indumenti, alcuni giacigli sostenuti da pioli rozzamente intagliati che gli uomini, nelle serate più afose, trascinavano in cortile. Due giare mantenevano fresche le scorte dell'acqua e della marissa, la birra di cereali fermentati.

Ma la cosa più importante era il fuoco. Da quando c'era la guerra i fiammiferi erano spariti dai banchetti del mercato che si teneva ogni giovedì nel bosco di manghi e di alberi nim, oltre il corso prosciugato del fiume. Per accenderlo bisognava sfregare un bastoncino nel foro di un legno più morbido, riempito di paglia. Appena la paglia cominciava a fumare ci si soffiava sopra finché s'incendiava e la si portava di corsa in cucina, per dar fuoco alla legna e allo sterco di vacca. Yasmina era fiera di saperlo fare, ma non accadeva spesso: in casa la brace era sempre viva, sotto il tiepido mantello della cenere, e quando la mamma si alzava per attizzarla, prima dell'alba, dalla bocca del forno filtravano tenui bagliori rossastri.

Una notte Yasmina si svegliò di soprassalto. Si sentivano raffiche di mitra, dietro le colline, e i colpi sordi dei mortai. Tutti corsero all'aperto e si radunarono nel piazzale della moschea, in ascolto. Soffiava l'habub, il vento secco del nord, e le creste delle montagne erano in fiamme. "Abuna, ho paura" disse Yasmina stringendo le mani nodose del nonno. "Bruciano i campi per preparare la semina" rispose il vecchio per tranquillizzarla, ma con un tono di voce così triste e sommesso che persino l'imam, sorpreso, si voltò a guardarlo.

Poi dal sentiero sbucò un ragazzino trafelato: "I guerrieri, arrivano i guerrieri". Erano una ventina e trottavano veloci, senza far rumore, in fila indiana. Entrarono nel recinto del capo del villaggio e si sedettero per terra, con i Kalashnikov a tracolla e le granate appese al cinturone. Chiesero acqua e marissa: parlavano il dialetto del Tira Limon, le colline di sudovest.

Appostata con gli altri bambini tra le canne della palizzata esterna, Yasmina spiava e origliava senza fiatare, con il cuore che le batteva in gola e nello stomaco. C'era stata una battaglia. Gli arabi avevano incendiato molte case e distrutto i granai, avevano portato via le donne e il bestiame. Tre soldati nemici erano morti, ma anche due guerrieri e quattro o cinque contadini aggrediti nel sonno.

L'improvviso latrato dei cani e un brusio di voci concitate nel buio della boscaglia annunciarono l'arrivo di altri uomini armati che trasportavano a braccia un compagno ferito. La camicia era strappata, il volto madido di sudore, la bocca socchiusa, gli occhi sbarrati: dalla gamba sinistra, squarciata da un proiettile, colava un fiotto di sangue scuro. Yasmina corse nella sua capanna e si rannicchiò nella coperta. Ma quella notte non riuscì a dormire.

La decisione di partire fu presa in tutta fretta, in un conciliabolo tra anziani di cui Yasmina riuscì ad afferrare solo alcuni brandelli di frasi pronunciate sottovoce di là dal muro di fango del tukul: "Meglio evitare il fiume..." "Potrebbero farsi vivi da un momento all'altro..." "Dividiamoci in piccoli gruppi..." La luna era ancora alta quando il nonno venne a chiamarla: "Mangia qualcosa, dovrai camminare a lungo, ma dallo zio a Nyabroro sarai al sicuro. La mamma e i più piccoli verranno con te. Io e tuo padre resteremo qui e penseremo al bestiame. Tornerete con le prime piogge".

I guerrieri armati aprivano la strada, seguiti dalle donne cariche di fagotti, pentole, zucche per l'acqua e bambini incollati alla schiena, con la testa che ciondolava dal bordo della stoffa in cui erano fasciati. Sembravano farfalle imprigionate nel bozzolo. Yasmina portava l'ultimo dei fratellini, Abdallah, che non aveva ancora un anno, e stava in coda alla colonna. Ogni tanto doveva correre, per stare al passo con i grandi. Nessuno parlava. Discesero il fianco ruvido e accidentato della collina, tra le rocce e i baobab. Poi girarono a sud, nella pianura di manghi e acacie, e il terreno si fece più morbido. Era un sollievo sentire la sabbia fresca sotto i piedi, senza dover badare alle pietre taglienti della montagna: bastava evitare le macchie scure dei cespugli spinosi e lasciarsi guidare dalla traccia sinuosa del sentiero, che la luce argentea della luna piena faceva scintillare.

All'alba videro le prime case della vecchia Kalkada: Yasmina ci era nata ma la conosceva solo dai racconti del nonno. I sudanesi l'avevano rasa al suolo, uccidendo più di cinquecento nuba: era diventata una città fantasma, e faceva paura. C'erano teschi e ossa umane tra le rovine calcinate. I campi erano abbandonati, le strade deserte, il tetto della scuola era crollato, i muri di mattoni erano anneriti dal fumo di un incendio. Si fermarono alla moschea, un rudere di sassi grigi, e i guerrieri entrarono per la preghiera del mattino, dopo avere appoggiato le armi fuori dall'ingresso. Anche l'imam Abud depose il suo Kalashnikov prima di recitare, rivolto alla Mecca, il primo versetto del Corano: "Bismillàh ar-rahmàn ar-rahìm..."

Si misero a cercare arachidi negli orti invasi dalle erbacce, tra le vecchie coltivazioni di miglio e di sim-sim, la pianta da cui si spremeva l'olio, e raccolsero i frutti acerbi dei manghi, verdi e aspri: si mangiavano con la buccia e toglievano la sete. Trovarono alberi carichi di piccoli limoni gialli che le donne tennero da parte per il viaggio, annodati tra le pieghe della tunica. Mekouar, il capo dei guerrieri, disse che era tempo di rimettersi in marcia: "Qui non possiamo restare a lungo. Il nemico è a un'ora di cammino, nella guarnigione di Mendi. Andiamo".

Mekouar aveva spalle robuste e gambe alte e salde come tronchi, capaci di arrampicarsi in un baleno sulle rocce levigate dal vento e dalla pioggia. Era poco più di un ragazzo, ma era già un comandante rispettato. La sua fronte e gli zigomi erano segnati dalle cicatrici delle scarificazioni rituali e Yasmina lo guardava con un misto di timore e di ammirazione: le avevano detto che la famiglia di Mekouar era stata sterminata dagli arabi del nord.

Si fermarono verso mezzogiorno, quando il caldo si fece insopportabile, in un boschetto di nim dove sapevano di un pozzo in disuso non ancora prosciugato. Le donne accesero il fuoco per cuocere la kisra, il semolino di sorgo, mentre gli uomini attingevano l'acqua, scura e fangosa, scavando buche profonde nel terreno di argilla. Yasmina era esausta. Si allungò nel lenzuolo d'ombra di un grosso ramo e si addormentò, sognando farfalle. Ma fu solo un istante, perché riaprì subito gli occhi scandagliando lo spazio in ogni direzione: era il rumore di un aereo, ancora lontano nella cupola azzurra e senza nuvole.

Yasmina, come tutti, conosceva solo due tipi di aerei: quelli grandi, che bombardavano e incendiavano le case, senza mai atterrare; e quelli piccoli, che un missionario bianco faceva scendere tra le montagne, carichi di cibo e di medicinali. "È un Antonov" sentenziò Mekouar. "Vola alto e si dirige a ovest, verso la sua base: non ci darà problemi". Videro solo un luccichio d'argento, ma trascorsero alcuni minuti prima che quel sinistro ronzio di calabrone fosse inghiottito dal silenzio della valle.

Nella calura della controra le gialle creste dei monti scolorivano in vapori tremolanti e le distanze tra le cose parevano annullarsi, come in un paesaggio disegnato da un bambino. La natura era immobile, schiacciata da una luce di piombo. Tacevano persino le cicale, stordite da un sole feroce che solo i falchi osavano sfidare, salendo in lenti cerchi concentrici fino a scomparire, risucchiati nei lampi metallici di quel cielo di morte verso cui si protendevano i profili irsuti e disarticolati dei baobab. Yasmina ne stava alla larga. I vecchi dicevano che erano alberi capovolti, che crescevano sottoterra e avevano le radici in aria. Dicevano che nelle cavità dei tronchi abitavano gli spiriti e i serpenti. Nessuno dormiva sotto i baoab.

(da Cuore nero, Feltrinelli 2002 )

乔瓦尼•波尔西奥

选自《亚斯米娜的蝴蝶》

喂饮过牛羊之后,亚斯米娜在一棵芒果树的树荫下休憩。她喜欢躺下身体,把脖子枕在一块粗大的树根上,凝望着树叶蓊郁间的蓝色小鸟,以及排着整齐长队,顺着树干向上爬行的蚂蚁。如同每天早晨一样,她和她的兄弟们,以及村里的孩子们,穿过被阳光炙烤、金光潋滟的田野,赶着牲畜群下山来到静谧的河边。

那是一个遭到诅咒的时节,五个月以来滴雨未落,走在小路上须当心不要踩上刺槐干枯的针叶。在干涸不见水流的河床上所挖掘的水井,越挖越深且越挖越远。取水时需要把脚踏进泥浆里,一次只能汲满一瓢水,用绳子把它们提起来倒进水坑里,那周围簇拥着干渴的牲畜。苍蝇和蚊子经常来折磨人。然而不时也会出现几只蝴蝶,它们时常翩飞而来,浅落在她的掌心喝水。亚斯米娜将目光轻柔多情地、小心翼翼地投向它们。她凝神屏息,生怕它们会展翅离她而去。

她的爷爷伊布拉伊姆被大家尊称为阿布,也就是父亲。几年前,爷爷在埋葬了自己的第一位妻子,从墓地返回时曾经给她讲述过一个令她无法忘怀的故事:蝴蝶的翅膀上覆盖着一层神奇的粉末,正是这层粉末赋予它们展翅飞翔的魔力,那层粉末因颜色不同而含义迥异。红色象征雨水,蓝色象征丰收,黑色象征沉默,白色象征逝者的声音。

天气越来越热,亚斯米娜还得把水顶在头上在水井和家之间往返两三趟。半个小时上坡,半个小时下坡,时值正午,艳阳高照,朗朗晴空万里无云。最小的孩子们赤裸着身体,气喘吁吁地顶着略小一些的瓢,兴高采烈地哼唱着即兴的歌谣。亚斯米娜已经十三岁了,她很为自己身上穿着棉质长裙和内裤而感到自豪:她每天都用一根棍子拍打自己的衣服把它们洗干净,每礼拜她的妈妈都用矮树丛里一种特殊的草浸在水中煮沸,用这种水洗涤她衣服上面的污垢。她头顶的瓢很重,因此走路时汗水顺着脊背直直地流下来,又因为用力过大,脖子上的肌肉绷得紧紧的。她的眼睛一直注视脚下,以分毫不差的精度准确计算着下一步她将把脚放在何处:头一天,恰恰在山顶处,她由于走神被一块石头绊倒。为此她不得不独自悻悻地返回水井,并且承受同伴的嘲笑。"那天我太笨了!"

卡尔卡达村倚山而建,只有置身于半山之中才能将它一览无余。村里的小屋子用干泥巴垒成,屋顶铺着稻草,呈现出泥土和岩石的颜色,宏伟的巴巴布塔以及嶙峋怪石间掩映着这些错落有致的小屋。清真寺不过是以成堆石块围成的空地,阿訇阿巴德用树枝清扫鸡、羊留下的粪便以保持清洁,每当黄昏祈祷完毕,老人们习惯在这里驻足聊天。

然而以往并非如此光景。曾几何时,在低处的平原上和山谷底部,建有各式砖房、学校、带尖塔的清真寺;还有出售布匹和种子的小店铺,精耕细作的田地,绿葱葱的菜园,飘散着柠檬香气的花园。那是战前的境况,时至今日,那番光景,已经在亚斯米娜的记忆中日趋模糊了。

每个家庭都有几间简陋的小棚屋,分布在被灌木栅栏围绕的院落里。亚斯米娜有一个大家庭:父母、爷爷奶奶、叔叔、大姐,以及五个兄弟,栅栏为他们围起一方宽阔的场地。鸡舍安放在角落里,紧挨着用金属板搭建的凉棚,棚顶覆满碧绿清新的树叶,成为炎炎烈日的夏季午后清凉的庇荫处。谷仓是一间更为小型的棚屋,里边贮存着小米,芝麻,黍,高梁。另一侧是居住的棚屋以及孩子们的小屋,地面铺上草席,他们睡觉时就躺在上面。棚屋没有窗户,这是为了抵挡阳光和昆虫,阳光只能透过门口照射进来,门的上框很低,只有最小的孩子进门时才不必弯腰。屋里连厕所都没有,不过也不需要:只要走进灌木丛,到稍远处解决即可。

空荡的墙壁没有任何装饰,仅有的几件日常用品被小心的保护着:发黑的铁锅,破旧的铝刀和铝勺,两个上了漆的小盆,几只瓢,几件粗糙的农具,一个金属的衣箱,几张搭在粗糙木桩上的简陋床铺,男人们在闷热的晚上会把它们搬到院子里。有两口缸分别蓄存着清水和一种名为玛丽萨的谷物发酵啤酒,以此来保持它们的清凉。

然而最重要的东西是火。在干涸的河道另一边的芒果树和印楝树树林里,每周四都有一场集市,自从战争开始,火柴就从这里的柜台上消失得无影无踪。取火时需要用一根小棍伸进一块软木的孔里,填满稻草,并不断摩擦。稻草一冒烟,就得朝着它吹气,直到燃烧为止,然后拿着它跑到厨房里,点着柴火和牛粪。亚斯米娜很自豪她自己会取火,但她不需要经常做这件事:家里的火炭总是燃烧着,上边覆盖着一层温热的炉灰,每当天空尚未破晓,妈妈起床把火捅开的时候,总会有几缕泛红的微光从炉嘴儿里悄然渗出。

一天夜里亚斯米娜猛然惊醒。她听见山丘后边一连串冲锋枪扫射的噪响,还有迫机炮震耳欲聋的轰炸声。所有人都跑出屋子,聚集在清真寺的广场前,聆听着每一个动静。干燥的北风哈布呼啸不绝,山顶上火焰冲天。"阿布,我害怕"亚斯米娜不安的说到,不由地握紧爷爷瘦骨嶙峋的双手。为了让她安心,爷爷宽慰她说:"他们是在烧地准备播种",他的声音沉郁而悲伤,连阿訇都转过身来,颇为诧异地望着他。

之后小路上突然冒出一个男孩,气喘吁吁的说:"大兵,大兵来了"。一共来了二十几个大兵,一个接一个的轻声疾行而至。他们进入村长的院子席地而坐,斜背着卡拉什尼科夫冲锋枪,子弹带上挂着手榴弹。他们满口西南山区提拉里盟口音,毫不客气地索要了水和玛丽萨。

亚斯米娜和其他孩子藏身在栅栏外的卢竹丛中,屏住呼吸,暗中窥探,心里七上八下。发生了一场战争。阿拉伯人烧了很多房舍,毁了很多粮仓,掠走了妇女和牲畜。敌军死了三人,但我方也有两个士兵和四、五个睡梦中的农民丧生。

突然的狗吠声和矮树丛暗处嘁喳不安的低语声昭示着另一些士兵的到来。他们用手臂架着一个受伤的同伴。那人的衬衫已经撕破,汗流满面,嘴微微半开,眼睛睁得很大:他的左腿被炮弹撕裂,暗红色的血汩汩流出。亚斯米娜跑进她的小屋,紧紧蜷缩在被子里。那夜她无法入睡。

离开的决定下的十分仓促,是长者们秘密会议商讨的结果。亚斯米娜只隐约听到土库尔泥墙另一边的只言片语:"最好不要走过河的那条路…""他们随时都可以来报信…""咱们分成小组…"爷爷过来叫她的时候月亮还很高:"吃点东西,你得走很长的路,一到纳巴罗服你舅舅那里你就安全了。妈妈和弟弟们和你一起走。我和爸爸留下来照看牲口。等下第一场雨的时候你们就能回来了" 。

武装的士兵们在前面开路,妇女跟在他们身后,她们带着包裹,锅,盛水用的瓢,孩子被捆在背后,脑袋从包裹他们的布兜口处探出,一路摇摇晃晃,仿佛尚未破茧的蝴蝶。亚斯米娜带着最小的弟弟阿波达拉,他还不满一岁,走在队伍的末端。他时不时的需要跑几步,以跟上大人的脚步。没有人说话。他们沿着山丘陡峭崎岖的一侧,穿过岩石和猴面包树向下而行。然后他们向南前进,走在满布芒果树和刺槐的平原上,脚下的土地柔软了许多。踩着清凉的沙土,不用再留神山上咯脚的石块,前行的辛苦减少了许多:只要避开浓密多刺的灌木丛,沿着蜿蜒的小路前行即可,满月银色的光芒闪烁着倾泻在那条小路上。

天亮时他们看到了古老的卡尔卡塔的第一排房子:亚斯米娜在这里出生,但只是从爷爷的口中才对这里有了粗浅的了解。苏丹人把这里夷为平地,杀害了五百多努巴人:这里成为了一座令人毛骨悚然的鬼城:烈火燃尽的废墟中骷髅和枯骨成堆。田地遭废弃,道路上空无一人,学校的房顶坍塌,砖墙被大火的浓烟熏黑。他们在清真寺停下了脚步,这里已经成了布满灰色石子的废墟,士兵们把武器靠在门口,走进去做晨祷。阿訇阿布德也放下了他的卡拉什尼科夫冲锋枪,转身面对麦加,诵读着古兰经的第一句:"奉至仁至慈的真主之名…"

他们开始在长满杂草的菜园里寻找落花生,这里残留着往昔耕种的小米和用来榨油的芝麻,他们摘了还未成熟的芒果,青绿而酸涩:他们把它连皮吃下去解渴。他们还发现了果实累累的柠檬树,妇女们把它们摘下来,捆系在长裙的褶里留着路上吃。士兵的头领麦克阿尔说该继续前进了:"我们不能待太久。敌人现在在门蒂驻守,距我们只有一个小时的路程。我们走。"

麦克阿尔有强壮的臂膀以及修长、像树干一样结实的双腿,他能迅速爬上经风吹雨淋变得异常光滑的岩石。他还是一个大男孩,但已经成为了受人尊重的指挥官。他的前额和颧骨上带着成人仪式纹面的痕迹,亚斯米娜带着即害怕又钦佩的情绪看着他:他们告诉她麦克阿尔的家人全部死在了北方阿拉伯人的手下。

他们在快到中午的时候停下脚步,那时天气已经热的令人难以忍受,他们栖身在一片印楝树树林里,因为知道那儿有一口被废弃但未干涸的水井。女人们点着火堆做吉斯拉,那是一种高梁粉做的面糊,男人们在陶土地上挖了深深的坑来汲水,汲出的水水色发黑,带着泥浆。亚斯米娜已经筋疲力尽了。她在枝叶宽大的绿荫下伸展开四肢,酣然入睡,她梦见了蝴蝶。但刚睡着一会儿她就立刻睁开了眼睛向四周看去:是一架飞机,来自没有一片云彩的蓝色苍穹的远处。

亚斯米娜就像其他人一样,只认识两种飞机:一种是轰炸和焚毁房屋、永远不着陆的大型飞机;另一种是小型飞机,由穿着白色衣服的传教士指挥着在山间着陆,飞机上满载着食物和药品。"是一架安东诺夫",麦克阿尔判断到。"它飞得很高,往西飞去,是去基地的:不会给我们带来麻烦"。他们只看到一点不断闪烁的银光,只过了几分钟那个如同大胡蜂般嗡嗡作响的不吉利的声音便被寂静的山谷吞噬。

在午后的酷热里,苍黄的山巅在蒸腾的雾气中渐渐褪色,物体之间的距离仿佛在缩小,如同一幅小孩画出的风景画。大自然静如浮雕,笼罩在铅色的光影里。连知了也畏惧强烈的阳光,不敢发出声响,只有隼勇于挑战,回旋着上升,直至隐去踪影,像是被死寂的天空中荡漾的金属光亮所吞噬,猴面包树粗大而不规则的枝叶张牙舞爪的伸向四周。亚斯米娜绕开了这些树。老人们说这些树是头冲下的,它们向地下生长,根长在外边。他们还说树洞里住着灵魂和蛇。没人敢在猴面包树下睡觉。

(孙双 译)

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