Il wushu e la Cina: il racconto di una lunga storia d’amore

Piero Cellarosi 2021-09-09 18:46:32
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Ad ogni soffio di vento, una gelida lama invisibile sfiora le mie guance. Sento il naso arrossire dal freddo. Il lago ghiacciato riflette sul mio viso la luce fioca dell’alba, mentre una morbida danza di ombre ripete silenziosamente il proprio rituale mattutino. A riscaldare l’aria c’è solo il suono di un violino a due a corde. Lo sta suonando un anziano signore seduto sotto la tettoia di una piattaforma in cemento sospesa sull’acqua. Per alcuni istanti mi fisso a guardarlo. Il mio sguardo è attratto dalle sue mani sapienti che si muovono con dolcezza sul legno, mentre fa scorrere l’archetto sulle corde dello strumento. Mi lascio guidare da quelle note acute, tracciando nel vuoto linee profonde e armoniose, come quelle che disegnano le rughe su quel volto austero e, allo stesso tempo, accogliente.

Non fa più freddo. Un leggero tepore pervade il mio corpo riscaldato dal fluire del movimento. Il susseguirsi delle posizioni è lento ma costante, ogni tecnica si fonde con quella che la precede, andando avanti per poi tornare indietro come un’onda continua. Nella mente sento l’eco delle parole del maestro Wang: — Piailuo, fangsong. Yong yi, bu yong li. (Piero, rilassati. Usa l’intenzione, non usare la forza). Faccio un passo per avanzare, sferro con controllata delicatezza un colpo con il pugno destro, estendendo il braccio per poi riaprire il palmo. L’altra mano continua l’azione passando prima sotto l’avambraccio, poi riavvicinandosi lentamente al petto. Affondo leggermente i polsi e spingo nuovamente in avanti i palmi. Disegno un grande cerchio con le braccia, in un respiro profondo; incrocio le mani e le porto davanti al petto, distendo le braccia, espiro lentamente e chiudo gli occhi. Dopo alcuni istanti, li riapro ed il tempo torna a scorrere normalmente. Nevica.

Questo è probabilmente uno dei ricordi più belli che ho dei primi tempi trascorsi a Pechino. Era una mattinata di dicembre del 2006. All’epoca frequentavo un corso di cinese presso la Tsinghua University e, da qualche mese, avevo iniziato a studiare con il maestro Wang Yuzhu presso il Parco di Tuanjiehu il taijiquan - una disciplina cinese in cui l’arte marziale si fonde con la filosofia, dando vita ad una pratica corporea che ha effetti positivi sul benessere fisico e mentale di chi la coltiva.

Prima di trasferirmi da Roma a Pechino, avevo già accumulato una certa esperienza nel mondo delle arti marziali. Così come molti miei connazionali prima di me, anch’io iniziai a praticare kungfu per “colpa” dei film di Bruce Lee. E, probabilmente, sono stato uno degli ultimi di quella generazione di praticanti italiani che si avvicinarono alle arti marziali per via dell’influenza dei film prodotti a Hong Kong. In Italia il kungfu arrivò, infatti, per la prima volta agli inizi degli anni Settanta, per la precisione nel 1973, quando nelle sale italiane esordiva Cinque dita di violenza, un film che farà da apripista alle successive pellicole prodotte dalla Shaw Brothers e dalla Golden Harvest - le due principali case di produzione cinematografica dell’ex colonia britannica. Di lì a poco ci sarebbe stato un vero e proprio boom di scuole di kungfu in Italia.

Ovviamente, uno degli idoli più amati dal pubblico italiano di questo genere cinematografico è stato Bruce Lee. Attore e artista marziale dalle doti straordinarie, Bruce Lee ebbe il grande merito di introdurre una serie di innovazioni nei film di arti marziali, denotando il genere di quella realisticità di cui era in precedenza quasi del tutto carente. Bruce Lee non fu però solo questo. Grazie ai suoi film e in particolare al suo personale stile di combattimento, ma anche alla sua filosofia di vita - che ha cercato di trasmettere al pubblico nel corso della sua relativamente breve carriera di attore, regista, sceneggiatore, produttore e insegnante di arti marziali - è riuscito, infatti, a diventare una vera e propria icona del XX secolo. Tutto ciò gli ha permesso di entrare nell’immaginario collettivo delle generazioni nate in Italia (e nel resto del mondo) tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta come il combattente per antonomasia, un esempio da prendere a modello da praticanti e da aspiranti maestri. L’influenza esercitata da Bruce Lee non si limitava, però, solo alla ristretta cerchia dei praticanti di arti marziali; al contrario, in quegli anni quella di imitare le movenze e la gestualità del Piccolo Drago - per non parlare del suo modo distintivo di emettere suoni con la bocca durante i combattimenti, che ricordavano quelli di un felino - divenne una moda tra i giovani, soprattutto nei quartieri popolari delle città italiane. Insomma, Bruce Lee è stato – e in parte continua ad essere – un fenomeno della cultura di massa a livello planetario e l’Italia, così come altri paesi del mondo, non ne rimase immune. Io non feci eccezione.

Come accennavo sopra, sono stato uno degli ultimi a vivere il boom del kungfu in Italia, che è durato all’incirca fino alla fine degli anni ‘80 e primi anni ‘90. Quando i miei genitori si decisero a iscrivermi a un corso di kungfu non avevo ancora compiuto 8 anni. Di quel lontano ottobre del 1987 ricordo solo due cose in particolare: la forte emozione, paragonabile solamente a quella provata in occasione del mio primissimo viaggio in Cina (che feci undici anni più tardi, per partecipare a una competizione), e le parole del direttore del centro sportivo, il quale cercò in qualche modo di dissuadere mia madre perché, a suo dire, ero ancora troppo piccolo: “Va bene signora. Gli faccia fare una lezione di prova. Vedrà che sarà lui stesso a rendersi conto che è ancora troppo piccolo per il kungfu”. In realtà, rimasi con il mio primo maestro, Michele, per altri quattro anni.

A partire dalla seconda metà degli anni ‘90 cominciò ad arrivare in Italia anche la versione sportiva del wushu cinese, che tra i praticanti italiani è conosciuta come “wushu moderno”, per differenziarlo dalla sua variante “tradizionale” la quale, per convenzione, si è soliti chiamare in italiano kungfu. Il caso ha voluto che già all’età di 16 anni mi si presentò l’occasione di frequentare un corso curato dal maestro Angelo Rossi, il quale era tornato da pochi mesi in Italia dopo un lungo periodo di studio e perfezionamento presso lo Shanghai Wushu Institute. E fu così che la mia vita ebbe una svolta. Con il maestro Rossi ho studiato wushu moderno e tradizionale dal 1996 al 2004 e, in seguito, ho arricchito il mio bagaglio tecnico nel taijiquan. Grazie al maestro Rossi, con il quale condivido oggi una profonda amicizia, feci anche i miei primi due viaggi in Cina, nel 1998 e nel 2002. Nel frattempo, mi sono iscritto all’università dove studiai lingua e cultura cinese, per rimanere fedele al mio amore di sempre.

Sono ormai trascorsi più di trent’anni da quando ho tirato il mio primo pugno in palestra. Nell’arco di questo lungo periodo, il mio legame con il Paese che ha dato i natali a Confucio e Mencio è continuato a crescere e ad approfondirsi. Sebbene la mia passione sia sempre la stessa, con gli anni è cambiato il modo in cui intendo le arti marziali e il motivo per cui le pratico. Quando mi alleno, lo faccio in parte per rinnovare il mio personale rapporto con la cultura cinese, esperendone attraverso il corpo la sua filosofia antica e ricercando, allo stesso tempo, di entrare in contatto con la parte più vera di me stesso, dando voce nel movimento al mio essere. Vivo la pratica come un’esperienza profonda di auto-coltivazione spirituale, come una forma di costante ricerca introspettiva. Ma, allo stesso tempo, rifuggo da una visione “new age” e “falsamente interiore” della disciplina. La pratica è qualcosa di molto concreto e pragmatico, richiede attenzione ai dettagli, precisione nell’esecuzione ed un’elevata capacità di dosare in maniera corretta la forza. Non è niente di più e niente di meno di un allenamento fisico e mentale, che culmina nel superamento della distinzione stessa tra mente e corpo. Questa visione è certamente influenzata dallo stesso taijiquan, il quale enfatizza più di altri stili la dimensione interiore dell’arte marziale, con forti richiami alla cultura tradizionale neoconfuciana.

Viste da fuori le arti marziali possono sembrare solo un modo per imparare a “tirare calci e pugni” e credo che questo sia anche, ad esempio, uno dei principali motivi della popolarità di cui godono oggigiorno le MMA (Mixed Martial Arts), da molti considerate come la massima espressione degli sport da combattimento. Ritengo però che, a differenza di queste ultime, il wushu cinese - in tutte quelle che sono le sue varianti e stili - abbia qualcosa in più, non tanto a livello tecnico o pragmatico, quanto da un punto di vista strettamente culturale: il wushu è il frutto di un sapere tradizionale tramandato per secoli, una disciplina che trasmette a chi la pratica tutta una serie di valori finalizzati alla maturazione complessiva della persona, prima ancora che del combattente o dell’atleta. È uno stile di vita che ha assorbito in maniera talmente profonda aspetti della cultura cinese tradizionale da diventarne un simbolo. Ed è esattamente per questo che mi risulta praticamente impossibile pensare a quest’hobby, che coltivo da quando sono piccolo, in maniera indipendente dalla mia formazione sinologica. Le due cose sono interconnesse tra loro.

La passione che nutro per la Cina è, infatti, da sempre strettamente legata alle arti marziali. Per quanto queste ultime possano essere uno degli aspetti della cultura cinese che generalmente esercita un certo fascino su noi occidentali, credo però che nel mio caso specifico esse rappresentino qualcosa di ancor più profondo, di molto più intimo. Ed è sempre attraverso le arti marziali che, per la prima volta, mi sono sentito veramente accettato da questo Paese, non più visto soltanto come un laowai (uno straniero), ma semplicemente come un praticante. Così, ogni volta che mi alleno, non lo faccio solo per me stesso o in segno di rispetto verso la figura del maestro, ma anche per ringraziare la Cina che mi ha accolto e, a suo modo, ha saputo contraccambiare tutto l’amore che provo per lei.

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