Tra la globalizzazione e la collaborazione ​

2019-12-19 15:01:00
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Europa e Cina debbono parlarsi, fare riforme e arrivare ad un equilibrio win win


Il commercio globale sta rallentando. In rapporto al PIL mondiale è sceso dal 61% del 2008 al 58% odierno. La guerra tariffaria scatenata dall’Amministrazione Trump all’inizio del 2018 ha aggravato le tensioni commerciali a livello globale, è una guerra che ha come obiettivo prioritario la Cina, con cui gli USA hanno un deficit commerciale di 419 miliardi di dollari (2018), ma che ha coinvolto, seppure in misura minore, l’Europa.

Per dare un’idea, l’aumento dei dazi americani nei confronti della Cina ha interessato sinora merci per un valore totale di 253 miliardi di dollari, circa la metà del valore complessivo delle importazioni cinesi in USA, e Trump minaccia di estendere l’aumento dei dazi a quasi la totalità delle merci provenienti dalla Cina.

La Cina non è stata a guardare, le due potenze stanno seguendo una strategia del “colpo su colpo” (tit-for-tat) e la Cina ha risposto con un aumento dei dazi sulle importazioni USA per un valore di 110 miliardi di dollari, su un totale di circa 130 miliardi di importazioni dagli USA.

Questa guerra commerciale tocca anche l’Europa, a causa dell’aumento dei dazi americani su acciaio e alluminio, ma anche sulle lavatrici, e la UE ha risposto con misure tariffarie su 3.2 miliardi di importazioni dagli USA.

Questa la situazione nel momento in cui scriviamo e come vediamo è in continua evoluzione. Ciò che conta è capire la logica che sta dietro queste mosse. E qual è? L’insofferenza verso la globalizzazione, vista come una delle cause delle crescenti ineguaglianze nei paesi avanzati, e il timore del crescente ruolo della Cina come potenza globale.

Secondo Trump i dazi sulle importazioni cinesi renderanno gli Stati Uniti “a much stronger, much richer nation.” In realtà, c’è da dubitarne. Gli effetti positivi del protezionismo sono piuttosto limitati. Le guerre bilaterali sui dazi colpiscono certamente il commercio dei paesi direttamente interessati, ma causano uno spostamento dei flussi commerciali a vantaggio di altri paesi, la cosiddetta trade diversion.

L’UNCTAD ha stimato che sui 250 miliardi di dollari di esportazioni cinesi colpite dai dazi, solo il 6% verrà catturato da imprese americane. Analogamente, sui 110 miliardi di dollari di esportazioni americane in Cina soggette a nuovi dazi, le imprese cinesi catturerebbero solo il 5%. Paradossalmente, le industrie europee sono quelle che beneficerebbero maggiormente degli effetti di trade diversion.

Le tendenze protezioniste e la crescente avversione verso la globalizzazione non riguardano solo il commercio, ma hanno anche un impatto negativo sulle catene globali del valore (GVCs), che da molto tempo presiedono alla produzione e alla divisione del lavoro a livello internazionale.

Sul totale delle esportazioni lorde mondiali, la quota del valore aggiunto prodotto all’estero (un indicatore delle GVCs), che era cresciuta molto negli ultimi 20 anni, è attualmente stagnante e in discesa.

I tentativi di re-onshoring, come quelli dell’amministrazione Trump attraverso politiche fiscali favorevoli al rimpatrio dei capitali investiti, hanno potenziali effetti negativi sui costi di produzione dei paesi avanzati e rafforzano la tendenza a sostituire il lavoro con robot e automazione!

La Cina, la “fabbrica del mondo”, è direttamente coinvolta in questi processi. Il settore manifatturiero cinese è profondamente integrato nelle catene globali del valore. Secondo alcune stime, il numero di imprese in Cina con capitale straniero è più che raddoppiato negli ultimi 15 anni. Queste imprese rappresentano, direttamente o indirettamente, circa la metà di tutte le esportazioni cinesi.

L’imposizione di dazi e la diffidenza verso la globalizzazione possono danneggiare le supply chains e imporre importanti cambiamenti nella geografia della produzione. Il risultato è cioè la tendenza verso una maggiore regionalizzazione e verso l’accorciamento spaziale delle catene di fornitura (supply chains), ovvero si produce più vicino a dove si consuma.

I flussi globali del commercio riguardano sempre meno i beni e sempre più i servizi, i dati, le informazioni. Metà dei servizi scambiati a livello mondiale sono stati digitalizzati. Il 12% circa del commercio globale di beni passa attraverso le piattaforme internazionali di e-commerce, che connettono direttamente produttori e consumatori di ogni parte del mondo.

Si tratta di flussi di commercio di tipo nuovo che avvengono al di fuori delle catene globali. Tuttavia, le forti restrizioni esistenti in Cina (come il Great Fire-Wall) rendono difficile questo tipo di flussi. Otto dei 25 siti globali più frequentati al mondo sono ad esempio vincolati in Cina.

Gli investimenti esteri diretti (FDI) rappresentano l’aspetto più qualificante dell’integrazione internazionale. Recentemente, si assiste ad una preoccupante diminuzione del loro flusso. Si è tornati ai livelli più bassi dopo la crisi del 2008: dal 3.5% del PIL mondiale nel 2007, al 1.3% del 2018.

All’interno di queste attuali dinamiche, cambia il ruolo della Cina. Nel 2016 gli investimenti esteri diretti outbound della Cina hanno superato quelli di tipo inbound, rendendo il paese un esportatore netto di capitali, al pari delle grandi economie avanzate. Gli FDI in Cina hanno per lungo tempo rappresentato un canale cruciale per il trasferimento delle tecnologie di cui la Cina aveva bisogno. Ora invece le esigenze sono diverse.

Questo accresciuto attivismo da parte della Cina, soprattutto con acquisizioni di imprese o di quote di imprese, sta generando preoccupazioni e resistenze da parte dei paesi occidentali.

Seguendo l’esempio del Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti (CFIUS, Committee on Foreign Investment in the United States), la Commissione europea, la Germania, l'Italia e il Regno Unito hanno recentemente annunciato riforme nel loro regime di controllo degli investimenti che provengono dall’estero e segnatamente dalla Cina.

Questo potrà avere un forte impatto sugli investimenti cinesi, soprattutto su quelli realizzati da imprese statali o da imprese cinesi sostenute dallo Stato in relazione agli obiettivi della politica industriale cinese, o nei settori più sensibili e tecnologicamente avanzati.

La maggiore prudenza o diffidenza verso la Cina, non è soltanto tutta attribuibile al risorgere del protezionismo e non è del tutto inaspettata. È in buona misura il prodotto delle legittime ambizioni del governo cinese, testimoniate dagli obiettivi del programma Made in China 2025 e dalle descrizioni del “sogno cinese” del Presidente Xi Jinping.

Finché la Cina era la fabbrica del mondo che nelle nelle GVCs occupava le fasi a minore valore aggiunto (manifattura e assemblaggio), era un partner complementare dei paesi e delle imprese occidentali e ben accetto.

Ora però che la Cina intende risalire le catene del valore (a monte, verso la R&S, l’innovazione e il design dei prodotti; a valle, verso le attività ad alto valore aggiunto del marketing e dei servizi), gli equilibri tendono a cambiare radicalmente.

La Cina si configura sempre meno come un paese complementare, come in gran parte è stata finora, e sempre più come nazione concorrente, soprattutto in alcuni settori di importanza strategica. Questa pressione concorrenziale è però in parte condizionata dalla presenza di imprese statali, non ancora del tutto efficienti, o da aiuti o sussidi statali che vengono considerati distorsivi della concorrenza. Tutte cose non consentite in ambito europeo e di cui il Governo cinese è consapevole e intenzionato a riformare.


Il nuovo ruolo che la Cina intende ricoprire richiede pertanto un re-balancing nel rapporto con i paesi avanzati. È esattamente in questa direzione che l’Europa sta ripensando la sua strategia sulla Cina, pur con prudenza, incertezze e talvolta divisioni tra paesi.

Il documento della Commissione Europea del marzo 2019 (EU-China, A strategic outlook) è estremamente rivelatore, perché viene riconosciuto il mutato ruolo della Cina nello scenario globale, e si enfatizza come la Cina vada considerata non solo un partner nella cooperazione, ma anche un concorrente se non un rivale sistemico (“an economic competitor in the pursuit of technological leadership”, e, più in generale, “a systemic rival promoting alternative models of governance.” Nei confronti della Cina, dunque, occorre che la EU: “robustly seek more balanced and reciprocal conditions governing the economic relationship.”)

Questo in particolare riguarda gli investimenti esteri diretti (FDI). L’OCSE calcola ogni anno un indicatore che misura le restrizioni normative o regolamentari imposte dai singoli paesi al flusso degli investimenti diretti internazionali (FDI Regulatory Restrictiveness Index) e la Cina risulta certamente più restrittiva dell’Europa.

Esiste dunque una profonda asimmetria che pone un vero tema di discussione, soprattutto in conseguenza della forte crescita degli FDI cinesi. Negli ultimi tre anni, infatti, i flussi cinesi in EU sono stati più di tre volte superiori a quelli europei in Cina, soprattutto M&A (Merger and Acquisition). Di questi problemi il governo cinese è consapevole e vi è un saggio tentativo di allentare queste restrizioni. Ad esempio, si è passati dalla discrezionalità nel valutare gli investimenti esteri in entrata, che caratterizzava il passato, al più recente approccio della negative list. Tuttavia, alcuni settori, che peraltro caratterizzeranno lo sviluppo economico dei prossimi decenni, sono ancora preclusi alle imprese europee e occidentali e questa è appunto materia di dibattito.

Anche dove è consentito l’ingresso delle imprese e dei capitali stranieri, persistono delle restrizioni alla quota di partecipazione degli investitori esteri nelle joint ventures cinesi, gli investitori stranieri cioè possono avere solo quote di minoranza, e ciò non accade in Europa.

Anche in questo caso, tale atteggiamento può trovare una sua giustificazione nella necessità della Cina di incorporare tecnologia sviluppata altrove, ma ora che la Cina compete con il resto del mondo sul terreno della leadership tecnologica, questo limite andrà discusso con spirito costruttivo.

Grazie alla globalizzazione e alle politiche lungimiranti dei governi cinesi, la Cina si avvia a diventare un paese tecnologicamente ed economicamente avanzato.Vi è in Europa e altrove la piena consapevolezza di queste ambizioni e del ruolo di potenza globale che la Cina intende assumere in futuro.

La Cina sta cercando di raggiungere questo obiettivo attraverso un profondo cambiamento del proprio modello di sviluppo, lasciando alle spalle una crescita basata su esportazioni, attrazione di tecnologia straniera, basso costo del lavoro, verso un modello basato su ricerca e innovazione e sulla crescita dei redditi e dei consumi interni.

Questa è la chiave per superare la cosiddetta “trappola del reddito medio” che impedisce a molte economie emergenti di giungere ai livelli di benessere e ricchezza delle nazioni sviluppate.

La Cina ha certamente tutte le potenzialità per realizzare le proprie ambizioni, ma i segnali di rallentamento dei processi di globalizzazione non aiutano certo questo cammino. L’Europa può essere un partner fondamentale della Cina, a condizione che si riducano le asimmetrie nei rapporti economici che hanno in larga misura caratterizzato la grande fase di sviluppo degli ultimi decenni.

Ecco, occorre trovare insieme un nuovo equilibrio per una strategia davvero win-win, come spesso si dice in Cina.

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